Per chi ama la letteratura, scrivere racconti, essere cittadini del mondo e riflettere sulla Settima Arte

sabato 11 gennaio 2020

THE REAL END AND THE BEST OF THE DECADE (2010 - 2020) (11/01/2020)



Cordiali lettori del blog

è giunta la vera fine di questo spazio... fine che corrisponde a quella del decennio a cui è appartenuto

vi ringrazio per le visualizzazioni e per avermi seguito fin qui, per aver criticato e discusso i miei interventi, che poi è il vero motivo che mi spinse il 27 novembre del 2010 a pubblicare il primo post con l'ABC del sito e la prima recensione che fu The Social Network di David Fincher

sono davvero emozionato perché ho voluto sinceramente bene a questo blog, che rimarrà visibile per sempre a questo indirizzo e dominio... mi ha accompagnato nel periodo di passaggio a cavallo tra i 20 e i 30 anni quale valida piattaforma per i miei incontri sociali e che è stato determinante per tanti momenti di questo decennio in cui le cose potevano prendere decisamente un altro verso

non rimpiango nulla e sottoscrivo ogni cosa detta o riportata, anche tra quelle che hanno avuto conseguenze devastanti per il mio vissuto e la mia intimità. Con questo sito ho celebrato ragazze che ho amato... e ne ho anche perse a causa della tendenza di critico a mettere le mie idee a nudo senza filtri diplomatici

caro VP-italia, dobbiamo separarci, devo cambiare purtroppo vita e non posso curarti come ho fatto finora. Ti ho amato tantissimo e spero ogni tanto di tornare anch'io su queste frequenze, magari quando sarò ancora più vecchiotto, e ricordare con le mie parole come sono stato in questi anni '10, difficili, dolorosi, a loro modo epocali anche con qualche gioia e curiosità che non è mancata

e prima di chiudere del tutto non posso esimermi a fare una classifica dei migliori film del decennio

viva il Cinema, viva la Scrittura, viva Noi!



12. L'Altra Heimat - Cronaca Di un Sogno (2013) by Edgar Reitz

11. Snowpiercer (2013) by Joon-ho Bong

10. Tesnota (2017) by Kantemir Balagov

09. The Woman Who Left (2018) by Lav Diaz

08. The Social Network (2010) by David Fincher

07. Miss Violence (2013) by Alexandros Avranas

06. Io, Daniel Blake (2016) by Ken Loach

05. L'Età Giovane (2019) by Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne

04. Martin Eden (2019) by Pietro Marcello

03. Frantz (2016) by François Ozon

02. Joker (2019) by Todd Phillips

01. Amour (2012) by Michael Haneke


VP

lunedì 30 dicembre 2019

THE BEST OF 2019 (30/12/2019)



Cordiali lettori del blog, miei affezionati.

Come di prammatica si fa un riassunto annuale di ciò che è successo al Cinema, soprattutto in ambito artistico, in questa ultima tacca di "anni '10" che rappresentano il cuore di questo spazio.

Uno spazio cinematografico e affine aperto nel 2010 e che domani verrà chiuso ad eccezione di un report di viaggio lungo che sto ultimando e che verrà inserito posteriormente.

Ma sarà domani, con l'ultimo post ufficiale del blog, che parleremo della sua struttura definitiva che comunque rimarrà presente in rete, pur confinata a questo decennio e alle sue tendenze.

Per non perdere il nocciolo della questione, il 2019 è stato uno splendido anno cinematograficamente come non me ne ricordo addirittura da metà anni '90: a dispetto di una distribuzione che non fa il suo dovere, che cambia titoli originali in modo assai discutibile, e si perde per strada uno tra i "the best", ma anche un'opera davvero suggestiva come The Lighthouse di Robert Eggers (il regista che ci aveva fatto sognare con il pur sempre superiore The VVitch (2015), che sarebbe stato inserito subito dopo la 12esima posizione), rimasta inedita in Italia.

Dal canto suo il Cinema Italiano fa un balzo in avanti con autori nuovi e vecchi: tra il fumettista Igort, Pietro Marcello, Matteo Rovere che si conferma e Bellocchio che dà scuola di regia con il suo Buscetta è stato un grande anno, che ci dimostra come con un po' di coraggio produttivo ancora si possano fare ottime cose.

Ecco la classifica dei migliori, che rimane pur sempre un gioco fine a se stesso... ma che diverte tanto e forse un senso che vada oltre la superficie delle cose ce l'ha pure.



12. 5 È il Numero Perfetto (2019) by Igor Tuveri

11. Hotel Artemis (2018) by Drew Pearce

10. Border - Creature Di Confine (2018) by Ali Abbasi

9. Burning (2018) by Lee Chang-dong

8. Charlie Says (2018) by Mary Harron

7. Il Primo Re (2019) by Matteo Rovere

6. Il Traditore (2019) by Marco Bellocchio

5. Under the Silver Lake (2018) by David Robert Mitchell

4. The Irishman (2019) by Martin Scorsese

3. Oro Verde - C'era una Volta In Colombia (2018) by Ciro Guerra & Cristina Gallego

2. L'Età Giovane (2019) by Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne

1. Joker (2019) by Todd Phillips


VP

mercoledì 25 dicembre 2019

MITTE L'EUROPA - CRONACHE DI UN VIAGGIO SCAZZATISSIMO (25/12/2019)

Ecco l'articolo che in tanti mi avete chiesto e a cui forse avevate smesso di credere. Il titolo che fa molto (o morto) Jim Jarmusch all'italiana, Daunbailò e The Dead Don't Die, è davvero pretestuoso e perciò si adatta perfettamente al poco entusiasmo di cui sto per raccontare. E allora, vi chiederete voi, che cazzo lo leggiamo a fare? Mica sono io che l'ho chiesto 'sto report e di certo non mi metterò a gestire il vostro tempo libero. Sapete in che condizioni stia da qualche anno a questa parte e aspettarvi altro dal sottoscritto, tipo le pionieristiche avventure nell'ex URSS che fino a un decennio fa allietavano i nostri momenti assieme, è del tutto fuoriluogo. Mi sopravvalutate di continuo e così sopravvalutate la mia esistenza e le mie forze residue. Ma tant'è... buona lettura e siatene felici visto che chissà quando il Fato mi rimetterà in cammino. Mai sono stato così inchiodato come ora e come presumibilmente lo sarò nel prossimo futuro.


Se 10 anni fa, diciamo nel periodo tra il 2008 e il 2012 più o meno, mi avessero raccontato che un giorno non avrei avuto più voglia di viaggiare, soprattutto da solo, in cerca dell'altro del mondo e di me stesso, una delle finalità nobili di cui mi sono sempre vantato durante i miei 20 anni, non ci avrei creduto. Mai e poi mai.

E invece eccomi lì, nel 2019, a tre anni di distanza dall'ultima scorribanda all'estero che fu Budapest 2016, il viaggio della depressione e della promessa a me stesso della fine di un certo atteggiamento nei confronti del tempo del dovere e dei piaceri, un bisogno enorme di rinnovare la mia persona e i miei sentimenti. Niente di tutto questo è accaduto... tre anni più tardi sono depresso come un pinguino all'equatore: la mia vita lentamente sta cambiando perché quando poi ti crolla la stabilità economica familiare, come forse è anche logico che sia, e non hai fatto poi molto per porvi rimedio (in pratica mettendo in discussione completamente te stesso e il tuo rapporto col mondo), le cose cambiano eccome. E ti senti paralizzato, mentre la realtà ti prende a sberle e gli ematomi comunque non ti danno la scarica di dolore adeguata per muoverti finalmente e prendere le redini del tutto: fare la tua mossa e mettere almeno sotto pressione il Tristo Mietitore che dall'alto della sua scogliera se la sta giocando alla grande, ben conscio che alla fine prenderà il sopravvento. Io non sto giocando, sono fermo, impassibile, completamente incapace a pensare qualcosa di mai considerato, un modo logico e uniforme di plasmare le mie esigenze sulla base del mercato di tutti.

Cosa ho fatto in 3 anni? Un po' di cose, sicuramente non ho viaggiato. O meglio ho fantasticato viaggi in posti tipo Sudamerica, Sud Africa, Australia, luoghi lontani in cui magari sarei stato in finalmente in contatto con una fauna mai vista, fantasticata da bambino mentre collezionavo album di figurine sugli animali. Posti che alla fine sono rimasti una suggestione, un po' per colpa dei miei amici che scelgono altre mete, non necessariamente europee, un po' per l'instabilità emotiva che mi rende difficoltoso vivere in serenità un eventuale trip in solitaria che non sia nel mondo slavo che ormai conosco abbastanza da anticiparne i possibili imprevisti. Ho paura di andare in Brasile da solo, della violenza frutto della terribile diseguaglianza sociale, delle tragedie improvvise e delle false impressioni, per quanto desideri quel viaggio più di ogni altra cosa. Ma non è quello o almeno non solo: il vecchio Valerio era di gran lunga più impavido e probabilmente avrebbe preso il fagotto e ad accarezzare i tucani in Amazzonia e a ballare Salsa a Ipanema ci sarebbe andato davvero.

Se dobbiamo dire la verità diciamola tranquillamente: a 35, quasi 36 anni, non mi regge più la pompa. Ho un calo del desiderio di tutto, anche del sesso: non frequento più donne, non esco più in cerca di loro o anche solo di nuovi amici, vivo malissimo la tendenza di molte ragazze che mi hanno contattato (anche tra quelle che più mi piacevano) a dare ascolto al proprio orologio biologico. 'Queste non vogliono uscire con me perché mi vogliono... ma perché sono state lasciate dai rispettivi compagni e, rimaste sole, devono trovare uno libero per innescare tutta quella serie di riti sociali che magari altre amiche hanno già attivato e che in questo senso le fa sentire così fuori dal mondo, lontane da un'idea della felicità che non è mai stata e credo mai sarà mia'. Altro che viaggi in Russia o in Ucraina, altro che uscite con bionde e more vestite come modelle e che a fine serata ti salgono in appartamento che hai preso dalla babooshka col fazzoletto che appena varcata la porta di casa ti offre il tè. Non ho voglia di niente e forse questo è l'aspetto più sinistro della vicenda.

Perché in realtà, per contingenze che non starò qui chiaramente a raccontare (anche per rispetto di chi mi ha supportato e mi ha dato opportunità), davanti a me avrei un settembre di fagotto e viaggio selvaggio: certo non in Alaska a crepare, ma comunque in posti che mai avevo visto eccetto Monaco Di Baviera, che sfiorai appena durante un inter-rail in Scandinavia nel 2004. Ma prima di elencare le varie tappe di questo lungo viaggio autunnale, già stanco dal principio e del tutto inaspettato, vale la pena soffermarsi sui momenti quasi drammatici che l'hanno preceduto. Partire dalla notte che ho preso lo zainone pesantissimo Invicta che m'accompagna dai tempi degli scout negli anni '90 e sono uscito di casa per una passeggiata notturna fino alla stazione Termini, dove avrei chiaramente preso il bus per Ciampino nei tempi giusti per un volo super scontato di quelli che ti obbligano all'alzataccia ma che ti danno la soddisfazione di aver risparmiato quelle decine di Euro che magari impiegherai per qualche sfizio più in là. Di soldi ce ne avrei abbastanza per tutta la durata dei 27 giorni, ma la tendenza a non concedermi comodità per investire pesantemente in altro ancor non m'abbandona, malgrado tutto.

Saluto mamma che è notte inoltrata e con grande fatica mi faccio a piedi, con uno zainetto dentro lo zainone già di per sé colmo di robe e una giaccone di vera pelle legata ai lacci in alto, una buona parte di strada di Roma Est direzione Tiburtina per poi continuare verso Termini. Nel cammino incontro comitive del muretto davanti a gelaterie e bar chiusi da almeno tre ore, eppure sempre lì a ciondolare con bottiglie di vetro in mano e tanta voglia di riprendere ad estate conclusa la movida romana periferica. Tutti si voltano a guardare questo tizio che passa a testa bassa con lo zaino ingombrante in spalla e già fradicio di sudore. Io continuo per i fatti miei e quando mi ritrovo d’improvviso sulla rampa che taglia i binari dei treni della stazione mi blocco e sbarro le palpebre ancora abbastanza provate dal magro sonno. I documenti! Pensavo di aver messo da una parte Carta D’Identità e Passaporto (quest'ultimo messo sotto custodia a riparo degli imprevisti del viaggio, visto che da cittadino dell’UE “l’identità” è sufficiente a giustificare la propria presenza nei territori comunitari) e all’improvviso non ricordo di averli inseriti nella cartella trasparente insieme al check-in online del volo. Mi libero con una smorfia di fatica dello zaino e una volta posato a terra cerco all’impazzata scavando tra jeans e magliette Emporio Armani in cerca della cartella. La trovo, frugo dentro e… i documenti non ci sono. Inizio una corsa contro il tempo per suonare da mamma, a cui ho lasciato le chiavi, e tornare a casa mia il prima possibile. Maledico me stesso più e più volte, visto che avevo calcolato i tempi privandomi del sonno per arrivare in stretto anticipo alla fermata del primo autobus per l’aeroporto. In 10 minuti, durante i quali la mia schiena colava come dopo un bagno in piscina, riesco a buttare giù dal letto mamma, che mi manda al diavolo giustamente, corro a casa e continuo a non trovare i documenti… che avevo messo sotto della carta riciclata sopra lo scanner mentre stampavo il check-in dei voli. Mi maledico di nuovo e non faccio in tempo ad esultare che sto di nuovo in strada tentando di non dare nell’occhio dei ragazzi che stanno ancora lì a sbevazzare e finalmente supero la stazione, mi dirigo verso l’Università e con stupore constato che in fin dei conti nella frenesia sarò riuscito guadagnare 20 minuti abbondanti. Arrivato sulla strada dell’Università (la mia Università, quella che mi diede una Laurea pseudo-inutile) mi lascio travolgere dallo sconforto esistenziale.

Trovo parcheggiata malissimo una Ford Ka dei primi anni 2000, proprio l’epoca in cui avevo 20 anni e frequentavo i corsi, la crisi economica era una roba inimmaginabile ed ero del tutto contagiato dall’entusiasmo di quell’età e dalla possibilità di uscire tutte le notti con una fiammante utilitaria nuova di zecca. Faccio una cosa che avevo sempre pensato di fare un giorno e che riguarda una lettura che da quando di anni ne avevo 12 ha plasmato il mio immaginario di viaggio: On the Road di Jack Kerouac. C’è una scena di quel libro che non dimenticherò mai e che mi ripassa nel cervello ogni volta che vengo investito dalle vertigini che precedono un lungo viaggio: il protagonista, tornato temporaneamente a casa, si rende conto di non poter rimanere, di non riuscire a reggere il peso di una vita borghese e conformista, fatta di convenzioni sociali, allora si sdraia sul parabrezza di una macchina e scoppia a piangere con i moscerini che gli si appiccicano agli occhi. Ogni momento esaltante di quel romanzo, di divertimento e comunione solidale giovanile sembra esattamente la conseguenza di quel gesto di disperazione viscerale prima del ritorno sulle strade dell’America conservatrice di una volta. E così faccio io: mi poso sulla Ka con tutto l’ateneo davanti ai miei occhi e inizio a piangere per almeno 2 minuti ininterrotti: la via è del tutto vuota e le zanzare romane non si intromettono come i moscerini nel romanzo. Nel frattempo mi domando se quello sia l'incipit di un dramma che mi avrebbe riportato presto a Roma, magari direttamente su una barella direzione ospedale, ma scaccio il pensiero e via.

Continuai a farmi quella domanda dentro al pullman che mi portava all’aeroporto; poi, quando finalmente scattarono le 6 di mattina ed ero già in volo, pensai che il segreto per superare quel mese era proprio non pensare. Dovevo necessariamente darmi, giorno per giorno, degli obiettivi facilmente raggiungibili, procedere sempre per gradi e non ragionare mai sulle cose a media distanza. In fondo era tutto profondamente sbagliato: ho la tendenza derivata dai film a costruire le mie vicissitudini come fossi il regista o lo sceneggiatore della mia intera esistenza. Ma io regista della vita non lo sono: gli imprevisti e i malanni, miei e di chi mi è più caro, continuano a devastarmi, a sviare tutti i miei propositi. Una canzone degli anni ’80 di Garbo diceva “vorrei regnare sulle cose che cambiano!” e io non regno un bel nulla. La verità è che ci sono degli input malsani che vengono direttamente dalla mia famiglia, del ceto medio-piccolo quale appartengo, quello che ha raggiunto un benessere che in questi anni di crisi viene messo in discussione. C’è sempre un sacrificio da fare per il domani e il diritto al futuro è inviolabile. Ma in realtà, soprattutto oggi, quel futuro non esiste. Il futuro ha un senso quando c’è da ricostruire dalle macerie o quando si dà alla luce una nuova vita umana e, tradimenti a parte, quantomeno ci si autoinganna che possa esistere un legame affettivo abbastanza duraturo dal fissare la parola “amore” come punto centrale del proprio stare al mondo. Costruire una vita sociale partendo dal modello famigliare tradizionale. La mia famiglia continua a ragionare in quel modo anche sulla mia di esistenza, come non esistesse un qualsiasi modello alternativo valido. Per loro lo snodo decisivo della mia vita ci sarà solo quando avrò un impiego fisso stabile, che mi permetta di mettere da parte i contributi previdenziali per quando sarò vecchio (quindi dando per scontato che lo diventi), e mi lascerò andare davanti ad una donna (ormai non più ragazza) da conquistare per costruire metterci in cammino per l'appunto su quella strada. Il resto è tutto un contorno o per meglio dire una perdita di tempo, se mi mostrassi meno attaccato a tutte quelle velleità di cui mi circondo. È un continuo attendere i passi determinanti che mi rendano finalmente l’uomo borghese del presente e del mondo che (non) verrà. Ma c’è un grosso problema: io ho deciso volontariamente di non aderire a quel modello e l’amore incondizionato per quell’anarchico senso di libertà che tendo ad inseguire mi fa stare profondamente antipatico ogni aspetto della vita che mi faccia tendere da quella parte. E allora cosa succede? Succede che si rimane lì a pensare, preda delle contraddizioni. Questo non dovrebbe accadere, soprattutto davanti ad un viaggio, soprattutto on the road, su strade che non conosco di paesi diversi, che per quanto europei e comunitari sono per l’appunto diversi. Non pensare, agire e stare sempre in movimento, come un vento che mi porti dall’Ucraina occidentale alla Baviera.

Un viaggio di questo tipo può essere vissuto positivamente solo se contemplato in una logica di frammentarietà. E sarà per frammenti che racconto quel poco che mi è accaduto. Non ci sarà nessun itinerario di viaggio che al contrario sublimò di per sé le mie avventure russe, ucraine o polacche. Qua ci sono singoli pezzi di un mosaico compiuto, che si incastrano qua e là e si permettono anche di lasciare qualche buco. Dunque per la prima volta parto dalla metà ovvero da quando lascio l’Austria per la Germania dopo essere giù stato in Ucraina e Slovacchia.

Ero tornato a Vienna che già c’ero stato qualche tempo prima per incontrare Ekateryna. Lei, ucraina di Leopoli, mi aveva fissato sull’autobus che nei primi giorni da Bratislava mi portava alla frontiera col suo paese che scrivevo sul quaderno parti del nuovo romanzo che forse mai pubblicherò. Si venne a sedere accanto a me per chiedermi se fossi uno scrittore: risposi che volevo soltanto mettere per iscritte alcune cose e nient'altro. Iniziammo a parlare dell'Ucraina, delle differenze tra regione e regione (tra oblast e oblast), di Kiev, di Odessa e del suo sentirsi europea. Di tanto in tanto spostavamo il tiro su Michail Bulgakov il cui capolavoro Il Maestro e Margherita è uno dei romanzi della mia formazione. Ma almeno per una volta non volevo buttarla sull'umanistico come più mi si addice e non volevo davvero sembrare migliore intellettualmente di quello che sono. Ekateryna era una di quelle ragazze slave che a guardarle da lontano le diresti latine, solo molto alte e prestanti. Con quel top zebrato e le unghie lunghe e bianche mi ricordava Ty Randolph, una delle attrici americane dei B-movies erotici degli anni '90 che quando ero adolescente di tanto in tanto passavano sulle reti private. Era una ragazza fisica e io volevo essere fisico a mia volta. Ci salutammo alla frontiera visto che doveva prendere una marshrutka per una baita dove viveva la madre malata di cancro, scambiandoci i contatti e dandoci appuntamento a Vienna dove chissà che avremmo fatto una settimana più tardi. Quando dopo essere stato a Bratislava andai effettivamente nella capitale austriaca lei era ancora in Ucraina con la madre; mi disse che c'erano delle complicazioni, che magari avremmo potuto vederci qualche giorno più in là. E uno dei giorni che passai a Graz e stavo pianificando di raggiungere Salisburgo per poi salire in Baviera, mi arrivò il messaggio di questa stangona alta quasi come me che nel frattempo avevo provato a dimenticare: "vieni a Vienna, ti ospito io". Presi il primo Flixbus per la capitale e appena tornato alla stazione mi venne a prendere un suo coinquilino che a sua volta mi disse che Ekateryna era ad un museo con un'amica e che ci avrebbe aspettato a casa sua. Prima però avremmo potuto prenderci una birra offerta da lui, allora ci rinchiudemmo alla bettola che incontrammo di strada per la metro. Durante una mezzora interminabile, in cui mi innervosii a dir poco, lui, che era austriaco della provincia, studiava ingegneria e dell'ingegnere aveva anche degli occhiali archetipici, mi disse di essere innamorato di lei e che era geloso di tutti gli uomini con cui stava. Provai in tutti i modi di fargli credere che volessi solo conoscere un lato di Vienna (ovvero di chi ci vive) che non avevo esplorato la mia prima volta e che avessi intenzioni del tutto innocue. Questo ingegnere di massimo 22 anni aveva un'aria malinconica che mi gettò nello sconforto e un'altra volta tanto ho maledetto me stesso per aver seguito un impulso. Eppure avevo già avuto a che fare con ragazze slave che passano di avventura in avventura come se lo slancio vitale fosse infinito e le regole relazionali del tutto irrilevanti. Così ebbi da subito la voglia di togliermi da quella situazione: lo ringraziai per la birra e simulai di aver appena ricevuto il messaggio di un amico, così tolsi le tende e presi la metro per l'ostello in cui ero già stato. Grazie a Dio c'era ancora una stanza libera simile alla precedente e passai innanzitutto un paio d'ore a ragionare su ciò che era accaduto e programmare il da farsi. Avrei potuto ancora una volta mettere una pezza all'imprevisto prendendo un Flixbus notturno per Monaco Di Baviera, dove avevo già l'ostello prenotato. Cancellai le prenotazioni per Salisburgo perdendo relativamente pochi Euro e mi aggiudicai un posto di sbattimento notturno per le autostrade che tagliano l'Austria verso nord-ovest.

Mentre preparavo tutto a furia di tastare il telefono, una ragazza in carne ma con cui sarei andato a letto insieme subito, a cui nel panico non avevo neanche fatto caso, accanto a me mangiava una pizza. Poi, quando i nostri sguardi si incrociarono, si presentò: si chiamava Jennifer da Detroit ed era in eurotrip in solitaria. La classica americana di vent'anni molto in carne, che se ne frega di tutto e cerca di godersi il momento. Parlammo del più e del meno, di quanto era fica Vienna col bel tempo e di reciproche esperienze in America e in Europa. Poi, intuendo di non essere precisamente un suo coetaneo, mi chiese quanti anni avessi. In un battibaleno mi domandai se dire la verità o scalarmi di qualche decennio abbondante, poi però pensai che la conversazione fosse stata abbastanza franca e mi rivelai qual ero. In pochi minuti lei ingurgitò l'ultimo boccone di pizza per tornarsene in stanza e rimasi lì, da solo, a pensare cosa improvvisamente non stesse andando per quanto il viaggio fosse iniziato tutto sommato nel migliore dei modi.

Passai due giorni ad andare su e giù per il quartiere dell'ostello adiacente alla stazione dei treni, pieno di turchi e ristoranti di kebab. Di pomeriggio fino a sera andavo in centro e mi sedevo nella prima panchina che trovavo nella verde Heldenplatz a scrivere e riflettere. Ogni tanto mi si avvicinava qualche tizio che voleva parlare di qualcosa: io ignoravo tutti, rimanevo assorto nei pensieri e concentrato sulla narrazione delle mie storie romanzate, e intanto rimanevo colpito di come in questa città così ricca di storia e opulenta economicamente così tante persone vagassero in solitudine in cerca di qualcuno con cui scambiare due chiacchiere. A Vienna avevo già fatto tutto quello che dovevo fare: il museo degli Espressionisti come tappa obbligatoria, il Teatro Dell'Opera colmo e costoso all'interno e pieno di gente fuori che si godeva il Così Fan Tutte in diretta video proiettata sul muro, Stephansplatz e la passeggiata del Danubio pieno di birrerie e scalette su cui sedersi e farsi irradiare da un sole a momenti implacabile. Perdersi nel labirinto di palazzi bianchi di cui avevo tanto letto nelle opere di Arthur Schnitzler e non solo e lasciarsi colpire e deludere dall'avvento della modernità e dei flussi migratori in cerca di quel futuro di cui parlavo poc'anzi che davvero mal si addice ad una città del genere. Nell'Ottocento doveva essere davvero incantevole Vienna... oggi la sua bellezza sembra sfregiata da costumi e insegne grossolane dei negozi che ne distruggono l'atmosfera. Pare essersi adattata forzatamente ai tempi che corrono, non come Londra o Amsterdam o Praga.

La prima volta che ero arrivato da Bratislava ero ancora carico delle emozioni della capitale slovacca di cui poi racconterò. Ero esattamente nello stesso ostello in cui mi rifugiai nel post-Ekateryna, in stanza con una ragazza sudcoreana che si era portata un teddy bear con cui dormire la notte. La prima sera eravamo io e lei soli e quasi non ci degnammo di uno sguardo: qualche mio amico è diventato un fanatico della Sud Corea e delle sue ragazze curatissime. A me non dicono niente e non avrei neanche 'sta gran voglia di parlarci e scoprire se magari abbiano mai visto un film di Kim Ki-duk o almeno una roba horror tipo A Train To Busan (non mi spingerei troppo più in là dalle parti di un Lee Chang-dong, ché mi sembrerebbe improbabile). E così mentre già la città mi lasciava tiepido a dispetto delle attese e al confronto con Bratislava, mi apprestavo a passare un weekend noioso che mi ricordava di molto Dresda, in cui l'unica ragazza che approcciai in discoteca pensava volessi impasticcarmi.

Poi però il giorno successivo entrarono in stanza quattro ragazze che viaggiavano insieme: tutte bionde, tutte molto carine e giovanissime. Inglesi della provincia di Shaffield. La coreana se ne era andata chissà dove, io ero appena entrato in doccia e, nella sicurezza di stare solo, avevo lasciato l'asciugamano fuori dal bagno, sul tavolo al centro della stanza. Chiesi gentilmente ad una delle inglesi di passarmelo e con un po' di imbarazzo lei lo fece. Poi una volta che assicurai l'oblio delle parti basse, a petto nudo mi presentai, un po' quello che accadde a Bratislava qualche giorno prima ancora. Solo che stavolta le cose non andarono così bene.

Le quattro fanciulle si dichiaravano sorelle ma una di loro alla fine mi disse che non lo fossero davvero. Erano la tipica confraternita anglosassone in cui "tutte per una e una per tutte". Avevano un'aria stranamente seducente con dei pigiamoni improbabili, proprio perché giovani e belle e chissà quanto maliziose. I primi due giorni che condividemmo la stanza furono di una freddezza anglosassone tale che qualora avessi avuto una richiesta da fare, di qualsiasi genere, avrei scomodato addirittura la coreana (che nel frattempo continuava a spupazzarsi il suo teddy bear e a non parlare con nessuno). Poi le cose cambiarono: il sabato sera che investii a Vienna decisi di andare ad un pub crawl: era esattamente come uno dei tanti a Roma, gestito da slavi con qualche americano a fare le presentazioni precise in inglese, e per passare dal penultimo pub alla discoteca finale prendemmo tutti quanti la metro senza biglietto. Chiesi all'organizzatore se fosse mai accaduto che qualcuno si fosse mai beccato una multa salatissima e così fu... ormai tanto tempo fa. Ebbene anche nella civile e implacabile Austria esistono queste realtà di espedienti e piccole inciviltà e, devo dire il vero, all'improvviso Vienna mi fu più simpatica. Ebbene le ragazze inglesi erano al pub crawl con me e dal momento che mi notarono, che ero già partito col cervello immerso nelle tre spine buttate giù di gran gusto, fu come se anch'io fossi accettato nel loro gruppo. Mi attaccai a quella meno carina che il primo giorno mi passò l'asciugamano dopo la doccia: "pensavo che non vi stessi simpatico". "È normale - disse lei - siamo inglesi". Passammo tutta la nottata a bere birra su birra e ballare: cercavo di essere il più controllato possibile e non perdere la confidenza ormai acquisita. Poi tornammo tutti insieme all'ostello su un taxi. Loro erano stanche morte, io preda di una voglia di scopare mai sentita da mesi: ero in attesa di un input da parte di qualcuno, ciò che accadde a Bratislava con la belga della settimana prima. Ma loro erano stanchissime e volevano dormire, la coreana intanto se ne era andata. Così rimasi in una veglia alcolica assai mesta, mentre sentivo la più antipatica (e bella) delle quattro che si rigirava continuamente sul letto a castello sopra di me. Quando mi alzai per andare in bagno, mi voltai a guardarla: era bellissima, sembrava un angelo vero e... si era tolta le mutande e accavallato la gambe tanto che mi trovai le sue labbra vaginali scoperte a pochi centimetri dalla bocca. Chissà cosa m'è passato per la testa in quel preciso istante, non ricordo. Ma niente andò come nel capitolo precedente in Slovacchia, che racconterò più tardi.

Mi sentivo stanco e fuori posto e quando due giorni dopo sostavo nella zona relax della stazione degli autobus in attesa assieme a una decina di sbandati che si prendevano a ripetizione costosissime bevande alla macchinetta più qualche coraggioso gruppo di americane che si intrattenevano con giochi di società, ero tanto felice quanto provato dalla promessa di felicità di quel corpo ucraino negato. Non l'avevo più sentita Ekateryna, quantomeno aveva avuto il buon senso di non contattarmi di nuovo. E mi sentii davvero un cretino di essere tornato in un posto in cui le cose non mi erano andate così bene, anche pensando alle inglesi, che quantomeno stimolavano le mie fantasie sotterrate.

Il Flixbus notturno, pagato davvero pochissimo, quasi regalato, era stracolmo di gente. Due ragazze bionde mi stavano davanti ma presto dovettero cedere il posto ad una coppia islamica con quattro figli che si sistemarono ancora più in là: la corsa terminava ad Anversa e a quanto pare questo nucleo, la cui tipologia avevo già incontrato innumerevoli volte nel mio soggiorno lavorativo belga, era diretto proprio lì. Bestemmiai silenziosamente aspettandomi di essere assillato dalla mancanza di rispetto dei bambini che già urlavano in arabo facendo rimbombare le pareti altrimenti quiete del secondo piano dove ero. Poi però il viaggio iniziò e tutti, compreso il sottoscritto, serrarono gli occhi per non farsi accecare dai lampioni che menavano sui vetri alla velocità del bus. Arrivammo a Monaco Di Baviera dopo 7 ore e una sosta in cui sprecai 50 centesimi per una mesta pisciata. Pensavo davvero che il grosso della fatica del viaggio fosse alle spalle, che quel notturno rappresentasse l'apice della scomodità. Mi sbagliavo, sottovalutavo la Germania, le sue regole e il falso pregiudizio che all'apparenza mi farebbe sentire comodo in una nazione così piena di servizi (costosi).

Se c'è una cosa sicura di questo viaggio è la definitiva consacrazione della Germania quale nazione in cui non andare mai in cerca di divertimenti o situazioni stravaganti da raccontare. Già mi ero scottato con Berlino e le città della ex DDR qualche anno fa in cui mi trovai ad attendere con trepidazione il volo di ritorno per Roma, cosa mai successa in altri posti, soprattutto all'estero. E questo mi fa davvero riflettere su tutte le stupide idee che avevo proprio durante gli anni dell'Università. In Germania volevo assolutamente farci l'Erasmus, spinto dopo l'inter-rail in Scandinavia da un rigetto verso i mondi caotici e latini. Desideravo trovare una mia dimensione in un posto organizzato come Cristo comanda e senza la mentalità retrograda delle provincie di tutta la penisola, soprattutto del Meridione, visto che durante l'Università ne ho subito la presenza (anche con amicizie importanti, a dire il vero, ma sempre con quell'alone di malinconica irrisolutezza, e depressione sociale, che caratterizza ogni discorso ad esempio con lucani e calabresi).

L'Università voleva mandarmi in Francia in un'accademia di Cinema e come biasimarla: è il paese che più investe e rispetta l'arte audiovisiva che piace tanto a me. Come diavolo è potuto accadere che io abbia perso di vista (e di allenamento linguistico) il mondo francofono che tanto mi tutelerebbe per spostare il tiro sul più algido e conforme dei mondi. Forse il Romanticismo, Goethe, Hermann Hesse o Heimat o Berlin Alexanderplatz? Forse i Matia Bazar o David Bowie? Chissà, fatto sta che qui bisogna necessariamente tracciare un punto sulla Germania, visto che stavolta ho visitato in lungo e in largo la ricca Bavaria e non la Sassonia chiusa e permeata di nazionalismo di ritorno.

Ad esempio una delle cose da precisare, una volta e mai è più, è che i tedeschi non parlano assolutamente bene l'inglese. Almeno la gran parte di essi. Nello stesso centro di Monaco ho avuto seri problemi a farmi dare anche informazioni basilari... persino dal padrone dell'ostello in cui stavo. Questo prima mi offriva una birra e mi dava anche due biglietti per altre pinte gratis in locali adiacenti, poi si incazzava perché parlerei inglese troppo velocemente: "allora inizio io a parlare tedesco e poi vediamo se capisci!". Rimasi sinceramente interdetto. La ragazza che lo aiutava, che sarebbe dovuta essere, da più giovane di almeno 20 anni, un pochettino aperta mentalmente, mi lasciò aspettare in piedi tutta la piovosa mattinata in cui ero letteralmente morto di sonno senza neanche offrirmi un divano per coricarmi. Eppure era così facile... nel piano di sotto dell'edificio dell'ostello era pieno di comodi divanetti. È tutto così strutturale e inflessibile.

Non riesci a trovare un bagno pubblico gratuito neanche per sbaglio: se soffri di prostatite o sei un atleta e sei abituato a bere tanto devi essere pronto a spendere intere banconote per usufruire dei bagni pubblici. Neanche il McDonald's o il Burger King offrono un po' di naturale ristoro senza superare i tornelli con i fatidici 50 centesimi. Questo si tramutò in una continua ricerca di un angolo di selva oscura, lontana da telecamere e occhi indiscreti, dove svuotare la vescica in allarme. Tante volte la solidarietà la trovai dagli "educatissimi" ultras della Stella Rossa di Belgrado, che hanno tappezzato di adesivi i punti nevralgici di Marienplatz, e dietro i cespugli dei boschi curatissimi ci davano sotto con mirabile nonchalance. Altre volte, soprattutto in piccole realtà come Augusta (o meglio Augsburg), tra un cheesburger e una patatina, mi godevo le scene degli adolescenti bavaresi, che dovrebbero pur essere benestanti, che scavalcavano di gran gusto i tornelli del bagno per "pagare col cazzo", al di là che ci fosse sempre una guardia armata che li riportava puntualmente al di qua del tornello. Scene come quelle erano una goduria.

Ma come detto la Germania è la terra del Romanticismo e questo risplende nelle passeggiate per i soleggiati prati che portano ai corsi d'acqua che portano alle viste della città, che portano ai laghetti con i cigni in libertà e le anatre che ti camminano accanto. C'erano tante panchine e mi fermavo di continuo a scrivere e scrutare da lontano la gioventù bavarese che tra una canzone rap gracchiata da un altoparlante portatile e qualche frastuono linguistico si godeva il settembre mite che all'ombra diventava semi-invernale: mai sentito così tanto sbalzo termico in pochissimo spazio. Ma la verità è che dopo un po' tutto questo candore diventa tutto fuorché stupefacente. Un giorno mi ero messo in testa di raggiungere a piedi l'Allianz Arena dove gioca il Bayern Monaco partendo dalla centralissima Odeonsplatz: una prospettivona dritta per dritta che porta fuori città dove per l'appunto c'è lo Stadio. Ogni cento metri di percorso si alternavano colate di cemento con meravigliosi prati e nobili cigni a bagnarsi nello stagnetto. Ad un certo punto mi dicevo: "vuoi vedere che là dietro l'angolo ci sta un prato con un cigno?" e puntualmente così era.

Ma fatte le dovute premesse tutto funziona alla grande. E se funziona alla grande è grazie al cervello quadrato dei tedeschi, che non ammette ambiguità quantomeno alla luce del sole. È come se non avessero quel segmento di rotondità che contraddistingue i popoli che fanno della fantasia i propri punti di forza. È proprio quel segmento che ci rende ladri, violenti e incivili, ma anche uno dei motivi che ci spingono a migliorarci e a creare capolavori dal nulla o dalle macerie del degrado.

Il Signor G. si sta per sposare e ha deciso di festeggiare l'addio al celibato all'Oktoberfest, di cui parlerò con dovizia di particolari tra poco: ad un certo punto della nostra giornata nella calca sbevazzante, ci appartiamo per parlare del più e del meno. Lui ha vissuto con la futura moglie a Berlino, ha imparato il tedesco, ha studiato ad Heidelberg e ha la Germania come punto di riferimento della civiltà europea. È un uomo di Giurisprudenza il Signor G.: per lui lo Stato di Diritto è quello che la "voglia di Comunismo" era per i brigatisti degli anni '70. Un'ideologia para-religiosa. "Questa è una cosa tua!" gli feci notare dopo che aveva elencato una serie di complessi reverenziali che continua ad avere nei confronti dei teutonici. "È vero" ammette, quasi con rabbia, come se in quel mio atteggiamento di distacco e non riconoscimento del primato del diritto sulle vite di ognuno di noi ci fosse un buco nero della coscienza e dell'insopportabile. Per lui, che peraltro ha viaggiato anche in Cina, Stati Uniti e altri posti assai poco socialmente giusti e individualmente liberi, non può esistere una vita degna senza le regole della Giurisprudenza. Ma la confutazione di questa tesi me la dà esattamente una serie di testimonianze che raccoglievo durante il viaggio.

Appena arrivato all'ostello di Monaco, come detto, non potevo prendere la stanza e rimasi 4-5 ore a chiacchierare con gli altri arrivati tra un caffè costoso preso da una macchinetta usuraia e l'altro: uno di questi è Ahmed e rappresenta il primo dei tantissimi immigrati del Terzo Mondo che stavano lì in cerca di un futuro possibile, senza neanche saper dire "ich liebe dich", e a quello tra poco ci arriveremo. Un'altra persona è Maria. Lei è un cinquantenne bionda rigorosamente bavarese (tende a specificarlo bene) che appena 20 anni fa doveva essere proprio bella. Non ho ben capito cosa ci stesse a fare in quell'ostello: era sola, per quanto sposata, in giro per la "sua regione" come se ancora la dovesse scoprire dopo esser stata in mezzo mondo. Iniziò a raccontarmi annate di percorsi, mostrandomi i timbri sui passaporti, tra l'Africa sub-sahariana e il Sudamerica, delle favelas in cui si avventurava in solitaria, delle macchine fotografiche rubate, furti di cui lei si è sempre fatta una ragione e che metteva da subito in preventivo. Niente ferma Maria, nessuna paura dell'Uomo e del mondo. I suoi occhi si riempirono d'amore al ricordo dei deserti della Namibia e dei pinguini incontrati per la prima volta in Sudafrica. Aveva anche uno stravagante humor... bisognava dare 2 Euro alla reception per la custodia delle chiave e lei si esibì in un urlo da prestigiatrice per mostrarmi il gettone già pronto. Risi anch'io.

Qualche mattina dopo volevo chiedere informazioni per raggiungere il meraviglioso Neuschwanstein che un po' come tutta la Bavaria avevo già visitato virtualmente giocando a Gabriel Knight 2, un'avventura grafica firmata Jane Jensen per Sierra. Dietro al desk dell'info-point c'era una sorta di Babbo Natale che sentendo le mie vocali aperte intuì che fossi italiano. "Sei italiano?" chiese con un accento perfetto. "Dio protegga l'Italia e tutti i bravi italiani" ha iniziato a urlare e io rimasi interdetto di nuovo. I suoi occhi, da spenti e annoiati quali erano si riempirono di stupore e allegria.

E questo porta definitivamente alla tesi che mi sono fatto su questo popolo così dritto e formato: i tedeschi vivono nel loro mondo e hanno le loro logiche che sicuramente si sposano con i diritti umani e sociali. Ma questi diritti, questa organizzazione, la sicurezza di vivere in un mondo rassicurante e ben strutturato non porta assolutamente alla felicità. Per trovare la vera gioia i tedeschi hanno bisogno del contatto con l'incivile e il contraddittorio, con l'Italia e i viaggi nell'Africa più sperduta. Come la mia amata Mate che vive a Roma, anche lei bavarese, che ha trovato parte di sé nella spiritualità indiana: lo stato di diritto non è abbastanza e passare un po' di tempo in Germania te lo fa capire piuttosto bene. È come se il mondo devastato dalle contraddizioni umane e la poesia del degrado che ne consegue avesse il potere di infondere loro una scarica di energia vitale senza il quale rimarrebbero spenti a tempo indeterminato. Non c'è neanche quell'insofferenza del vivere in un mondo troppo perfetto che si respira in Danimarca o Svezia. In Germania è tutto prosaico, anche il Romanticismo stesso.

Anche le feste hanno la struttura dell'evento massificato, pianificato e strutturale. Una struttura a cui i tedeschi sono restii a rinunciare, anche a costo di farsi spennare da un mercato che prende la palla al balzo e si permette di dettare le condizioni partecipative. L'Oktoberfest in questo senso è l'esempio più incredibile che mi sia capitato sotto gli occhi; una delle tante ricorrenze da cui mi ero sempre tenuto alla larga, per cercare esperienze più qualitative e intime, e che fin dalla pianificazione mostra una brutalità delirante. Mi ero organizzato di godermi Monaco un attimo prima dell'inizio di questa ricorrenza, proprio per sfuggire alla grande massa di persone, sia perché i prezzi degli ostelli, anche i più malmessi, si alzano a momenti del duecento per cento rispetto ai giorni precedenti. Davvero inverecondo: un prendere per il collo i visitatori che già di per sé danneggia la rilassatezza della festa. Il signor G., che con una combriccola che mi ha aggiunto su un gruppo Whatsapp sotto dettami della futura sposa, arriva il giorno stesso, gli altri più o meno pure, tutti con l'anima in pace di spendere un'enormità per un appartamento centrale a Monaco e non pensarci troppo. Io mi opposi fin dal principio e a Roma passai intere giornate a studiare triangolazioni con Monaco che mi permettessero di non prestarmi al tritacarne. Trovai un ostello perfetto ad Augsburg (quella che noi chiamiamo Augusta), dal prezzo accessibile e distante appena mezzora di treno da Monaco: uno dei partecipanti all'addio al celibato mi ha seguito e passai con lui un giorno e mezzo abbondante in questa località bavarese davvero bella, piena di tifosi di hockey che è lo sport locale e di ragazze che fermate per strada pensano subito che tu ci stia per provare. Mi accadde con una bionda a cui, ancora in attesa dell'arrivo del mio amico, domandai quale fosse il miglior posto del sabato sera, se ci fosse una svolta per la serata, magari un locale nascosto e fatto su misura per una nightlife soddisfacente. Mi rispose stizzita chiedendomi a sua volta se conoscessi la via principale della città, così piena di pub e bar. Questo è un altro lato caratteristico del Nord Europa, nella sua differenza con ciò che accade nei paesi latini da cui veniamo e che fanno del divertimento e della scena notturna una sorta filosofia, per cui le feste più belle sono sempre quelle un po' al di fuori del circuito principale, al riparo da ciò che si vede nell'immediato. Invece in Germania non c'è nulla di nascosto e non c'è mai qualcosa di straordinario oltre il facilmente visibile e questo immagino sia uno dei motivi per cui a Roma vedo tanti tedeschi mangiare in centro nelle classiche trappole per turisti. Deve essere davvero inimmaginabile per gente che viene da un sistema tanto chiaro e cristallino il fatto che magari la migliore carbonara la trovi in una via angusta del Pigneto rispetto alle strade principali della città.

Proprio di questo parlavo a Monaco qualche giorno prima dell'Oktoberfest ad un ritrovo di Couchsurfing, molto simile a uno di quelli che ho anch'io organizzato a Roma in posti centrali perfetti come punti di incontro e abbastanza poco frequentati da diventare terreni di sbevazzate e cazzeggio giovanile. Era poco sopra Maximiliansanlagen, che raggiunsi con una scarpinata notturna intervallate da pisciate sugli arbusti accanto al fiume di notte quasi spettrale. A darmi il benvenuto fu Johann, un biondissimo venticinquenne di professione giornalista a cui chiesi immediatamente come si diventi tali in Germania. No, non c'è un albo e neanche tutta la trafila che chi vuole intraprendere questo mestiere deve necessariamente fare in Italia (scrivere 70 articoli retribuiti, quindi con uno sponsor che investe su di te, altamente improbabile, in due anni solari e dare infine l'Esame Di Stato). Niente di tutto questo: basta fare un biglietto per l'Iraq, l'Afghanistan e qualche altro territorio conflittuale e si lavora freelance. È esattamente ciò che Johann ha fatto, che mi mostrava foto della sua vita un anno a Kabul, un altro a Bagdad e con Luca Toni e altri giocatori del Bayern Monaco. Mi parlava dell'Oktoberfest come di una "rottura di coglioni annuale in cui se ci vai ti perdi il telefono" e già iniziavo a raccogliere le forze per prepararmi al delirio collettivo. Poi flirtavo con una morissima e alta programmatrice informatica mentre tiravo giù un paio di birre offertemi e me ne tornavo stancamente in ostello.

Le forze richieste e il bisogno di riposo prima della grande rimpatriata non mi precluse il giorno prima nella bella Augsburg di finire in un pub pieno di ventenni che ballavano canzoni di Falco e altra roba German Disco degli anni '80 che mi chiedevo come potessero conoscere loro che saranno nati quando io di anni ne avevo almeno 15. Trasgredii la decisione di mangiare e bere sano prima dell'Oktoberfest, una, due, tre volte. Quando mi raggiunse finalmente il mio amico con un treno addirittura da Bologna e una coincidenza al München Hauptbahnhof, fu la volta della quarta trasgressione alcolica, finalmente in compagnia e con la malinconia del non avere più quell'età e del continuare con uno stile di vita simile e non più giustificabile, che mi resi conto che una ragazza bionda con gli occhiali mi fissava dall'altro lato dei divanetti su cui ero sprofondato.

Chiesi una, due volte al mio amico, che è fidanzatissimo e convive anche in una cittadina marchigiana, se dovessi andare a romperle le palle. Lui pensava che ce la potessi fare e si preoccupò del ritorno in ostello come se effettivamente avessi una chance di fare chissà cosa. Mi feci avanti e la barriera linguistica fu da subito un problema insormontabile: il suo inglese era quasi inesistente. Cercai di buttarla su pochissime frasi magari facili da capire o a cui rispondere sull'Università e la vita ad Augsburg ma non ci fu nulla a che fare. Lei mi domandò se davvero non sapessi una parola di tedesco io purtroppo risposi di sì e fu la fine di tutto e il ritorno lento in ostello dove trovammo un altro immigrato dall'Africa che dopo aver cercato fortuna in Italia (il suo italiano era perfetto) era appena arrivato in questa Baviera così costosa, così opulenta e non così troppo internazionale.

Così arrivò il giorno dell'Oktoberfest: dall'Italia mi arrivarono messaggi su messaggi, sui social network e non solo, di invidia per il fatto che stessi proprio lì, direttamente all'inizio del grande evento. Provai a pensare che una volta tanto fossi al centro davvero di qualcosa, qualcosa se non altro da raccontare e per di più ero con amici con cui avrei anche festeggiato il mio compleanno allo scoccare della mezzanotte. Dovevo sentirmi davvero fortunato e almeno una volta decisi che era il momento di mettere in pausa la coscienza critica e adagiarmi a ciò che sarebbe successo. Che di fatto si riduce a questo: ho bevuto, ho brindato, sono andato in giro con gli amici per tutto il perimetro di questo spazio stile luna park e composto di tendoni a tema e tavoli sia all'aperto che al chiuso, ho fatto una foto con ragazze brasiliane vestite da bavaresi, giocato ai drinkin' games con le carte con dei ventenni americani che mi avevano preso in simpatia vedendomi un attimo da solo (che guardavo la loro amica che aveva due tette che me le sarei succhiate all'istante) e infine nel tardo pomeriggio, tra una colata di sudore, un'altra birra carissima qua e là, riuscimmo a trovare un tavolo lasciato vuoto  (che secondo gli organizzatori sarebbe costato a chi dovette lasciare lo spazio più 1.000 Euro diviso in quattro o cinque persone, wow che culo!) e bere altra birra ancora. Finale con una cena fuori da un ristorante in cui ci davamo ancora dentro tra una frittura e un'altra birra e accompagnamento al treno per il nostro ritorno all'ostello di Augsburg e festeggiamento dei miei nuovi 36 anni di esistenza. Tutto bene, tutto memorabile.

Ora a distanza di mesi è l'ora di attivare la coscienza critica e parlare dell'Oktoberfest presentandolo per ciò che è. L'Oktoberfest è un'insensata trappola mangia soldi. La birra è standard, non ci sono robe artigianali o quant'altro, costa una fortuna e a meno che non hai culo come noi in tarda serata, non puoi far altro che consumare in piedi o su un praticello in salita che a momenti mi distruggeva un coglione per quanto ripido. Tutti sono vestiti con queste camicie a scacchi (che avevo anch'io), dicono un sacco di cazzate, spendono un sacco di soldi, in una specie di cosplay che ancora una volta dimostra come questi popoli del nord abbiano la tendenza alla carnevalata costante. Ricordavo in Belgio di partite di calcio che si tramutavano in opportunità per pitturarsi selvaggiamente la faccia come noi in Italia, professionisti del tifo, non faremmo mai. È più forte di loro... la pesante rilassatezza di una vita super organizzata si sfoga con l'esibizione pacchiana e tutto ciò che rimane alla fine di un'intera giornata spesa in quel modo è la sbornia frutto di litri e litri di birra (4 per quanto mi riguardava).

Al ritorno ad Augsburg mi girava la testa che a momenti andavo a sbattere su un palo della segnaletica in una strada sostanzialmente vuota. I miei compari da Monaco mi davano appuntamento al giorno dopo, ché loro sarebbero tornati a casa con un volo pomeridiano. Io invece avevo un'altra settimana di viaggio e non potevo assolutamente permettermi di perdere la testa e star male. Era domenica, mi svegliavo col mio amico, facevamo una colazione con uova a volontà, andavamo in stazione per prendere insieme il treno per Monaco. Arrivati a Monaco decisi finalmente di usare il biglietto che avevamo fatto in coppia e valido per l'intero giorno e per l'intera Baviera (in pratica uno strano incentivo ai viaggi di gruppo... si risparmia la metà di quando feci in solitaria lo stesso ticket per il Neuschwanstein e ritorno) per salvare il fegato e il colon e recarmi da solo a Norimberga che era la mia tappa seguente.

Arrivai che erano appena le 9 di mattina, la domenica del mio compleanno, da solo, con questo zaino ancora più pesante per l'ammasso di roba usata che avevo accumulato, ben separata da una spessa busta di plastica dalle cose pulite che mi erano rimaste. Era tutto pesantissimo e riuscii ad arrivare in un ostello piuttosto spartano ma al centro della città costeggiando le mura antiche. E cosa poteva ovviamente accadere, se non che dovessi aspettare il check-in esattamente come a Monaco... ergo 6 ore in piedi di post-sbornia da Oktoberfest. Intanto i dati del cellulare mi mandavano i messaggi di auguri di tutti i miei amici, chiamai mamma preoccupata del fatto che passassi il compleanno da solo e non con gli amici che ancora erano a Monaco. La rassicurai che stessi bene e che volessi starmene per conto mio in una città bellissima e soleggiata. Effettivamente il centro di Norimberga era il meglio che potessi chiedere per riposarmi e godere di scorci romantici: la passeggiata che costeggiava tutto il perimetro storico non durava più di 40 minuti abbondanti e all'esterno, nella parte orientale, c'era un bel verde con tanti laghi e cigni a volontà (e ti pareva), anche finti a mo' di barchetta. Mi trascinai spremendo le mie forze residue fino al check-in, poi mi tuffai nel sonno più totale mettendo la sveglia al pomeriggio, perché un compleanno è pur sempre un compleanno e passarlo rinchiuso nel proprio subconscio non era il massimo della vita. Quantomeno una birra e un'amicizia nuova erano un obiettivo minimo, neanche troppo complicato, mi bastava almeno replicare ciò che avevo fatto a Vienna.

Durante il sonno mi arrivarono voci di chi entrava in camerata o passava il tempo a chiacchierare nella living room adiacente. Voci che avrei conosciuto nei giorni seguenti e che mi avrebbero accompagnato fino al termine dell'avventura. Invece la prima cosa che feci appena sveglio fu accedere al wifi, aggiornare le applicazioni e cercare cosa di bello avrei potuto fare. Una delle prime cose che cercai fu ciò che avevo in mente di provare (magari senza consumare nulla) in Germania da tanto di quel tempo. Negli anni ho sentito parlare spesso dei cosiddetti FKK ovvero i bordelli tedeschi. Sono un punto di riferimento costante per chi, da Radicale come me e contrario ai moralismi borghesi e religiosi, trova insopportabile il degrado visibile e concreto della prostituzione in Italia, tra vie periferiche piene di lucciole e macchine che accostano. Perché deve essere così, perché non è possibile organizzare una cosa che in tutto e per tutto rappresenta un'industria affinché tutti stiano al sicuro, al riparo da malattie sessualmente trasmissibili, in posti appositamente adibiti che siano piacevoli e anche polivalenti? Come a Praga ad esempio, quando andai al mitico K5, che è di fatto un bordello con stanze a tema, ma anche un discopub con bar piacevole ed economico in cui ci trovi tanti ragazzi e ragazze normali, turisti e internazionali.

Un FKK, tra i più rinomati della Baviera, è situato appena fuori dal centro storico di Norimberga. Andai sul sito, scritto in tedesco e con poche informazioni in inglese, per scoprire che il giorno del compleanno, se attestato da un documento valido, l'entrata fosse gratuita. Peraltro il posto si raggiungeva abbastanza facilmente (o almeno così sembrava) con un treno coperto dal ticket regionale che in mattinata avevo fatto a Monaco col mio amico. Erano le 17 del pomeriggio e pensai che non potessi perdere questa occasione. Preparai al volo lo zainetto piccolo mettendovi pochi soldi, nascondendo la carta di credito e prendendo finalmente il costume e la cuffia da piscina: già, perché formalmente questi bordelli sarebbero delle saune, dunque già immaginavo di assistere a scena da film porno patinato in cui le puttane del posto ti convincevano a rinchiuderti in una stanza a tema per consumare.

Il piano era arrivare prima delle 18, immergermi in sauna, scambiare due parole con frequentatori e operatrici, farmi una doccia per lavare per sempre i postumi dell'Oktoberfest e di tutta quella parte di viaggio caotica e faticosa e tornarmene al centro di Norimberga per chiudermi in un pub carino e spararmi la birra dei 36 anni appena compiuti. Così invece andò: presi un treno che mi portò in una periferia dominata da una superstrada con macchine che arrivavano sparate ed io che camminavo ai lati. Incontrai tutta la una serie di personaggi, tra donne e uomini, dal volto segnato e qualche bambino che sfidava la morte in bicicletta. Il cielo era diventato terso e l'aria somigliava a quella di certi postacci di Roma Sud: un grigiore deprimente che toglieva impulso erotico, non avrei scopato neanche davanti ad un sogno erotico fattosi pelle viva. La geolocalizzazione del telefono mi portava in un posto davvero angusto, fatto di vecchi capannoni di non so cosa e tipo un deposito di macchine abbandonate. Fu lì davanti che incontrai la prima persona che stava raggiungendo la mia stessa destinazione finale: un biondone sulla cinquantina, la borsa sportiva e un abito grigio a tre bottoni e asola stretta che lo doveva far sembrare più giovane. Una sorta di Boris Becker, che intuì dove volessi andare, mi chiese di dove fossi per poi propormi di camminare insieme fino al bordello... accettai con riservo. Cercai di dire qualcosa di simpatico in inglese ma lui non capiva quasi niente, si limitava a dire "here" o "there" o roba tipo "nice", "good", "cool", salvo poi rimanere in silenzio con un sorrisetto accennato, quasi nascosto, che mi diede a dir poco ai nervi.

Finalmente arrivammo all'FKK, "Boris" (non ebbi voglia o coraggio di chiedergli il nome) pagò a filò negli spogliatoi con un asciugamano e il cappotto con il logo del locale sottobraccio. Io mostrai il documento, con la data di compleanno ed entrai gratis, però senza roba per pulirmi o coprirmi, ché avrei dovuto pagare comunque a parte. Poco male, perché al di là della pulizia e dei divanetti comodi che vedevo dappertutto e che cercai di scrutare in cerca di macchie di sperma e altre robacce promiscue il posto mi sembrò tutto fuorché un luogo di divertimento. C'erano più di una ventina di ragazze che andavano in giro da mignotte tipo quelle che incontri alla Salaria, con tacchi a spillo vorticosi e silhouette scollate. Ne salutai una in inglese e intuii un accento orientale che scommettevo fosse rumeno o bulgaro. Di ragazze tedesche o europee occidentali non v'era aria: magari c'erano eccome ma gli sguardi languidi che incontravo sapevano tanto di tutti i paesi con un PIL di gran lunga inferiore a quello tedesco. Donne che magari avevano famiglia in patria e mandavano in terra natia un buon quarto dello stipendio che prendevano in quel luogo ameno. C'era un buffet gratis nel salone centrale ben adornato che sembrava anche buono, io mi sentii intimidito dall'aria fredda del posto e dal fatto di non aver pagato, nonché dal non aver avuto neanche un invito a sedermi o qualcuno che mi avesse salutato quantomeno in tedesco. C'erano una decina di clienti tra cui Boris Becker che si era sistemato a bordo sauna per farsi accarezzare da una ragazza con cui parlava quasi sottovoce... pensai che ci fosse stata una telecamera sarebbe stato un buon incipit di un porno di Joe D'Amato. Il resto della combriccola era quanto di più assurdo avessi visto in vita: per la gran parte erano dei vecchi bavosi con i baffi che sembravano inamidati, che neanche erano il peggio. La mia curiosità si soffermò su un tizio dallo sguardo scavato e le occhiaie che gli scendevano incredibilmente: passai un minuto a ragionare su chi potesse essere quell'individuo. L'avessi incontrato in una strada normale l'avrei preso per un eroinomane o un malato di cancro in stato avanzato. Probabilmente sarà stato invece un sex addicted della mia stessa età magari con matrimonio distrutto alle spalle.

Mi sentivo davvero male e pensai che stare lì, in quel posto, in quella squallida periferia di una regione pur ricca di un paese ricchissimo, il giorno del mio compleanno fosse inaccettabile. In più l'hangover dell'Oktoberfest ancora non se n'era andato, ero a stomaco vuoto, e avevo appena scoperto che i bordelli al chiuso non rendevano il sesso occasionale più sfizioso e meno degradante di quello che accade a Roma da sempre. Tornai alla reception e mi feci ridare la Carta D'Identità e con una corsa quasi ad occhi chiusi tornai alla stazione dei treni per tornare al centro di Norimberga. Dove ad attendermi c'era Taksim, un compagno di stanza egiziano, che trovai tra i nostri due letti a mo' di preghiera. Mi scusai e uscii dalla stanza, lui mi pregò di non preoccuparmi e che il Profeta Maometto vedeva di buon occhio la condivisione della preghiera. Comunque lo ringraziai e profondai su un divanetto della living room, dove c'erano due personaggi, un uomo e una donna, che parlavano una lingua strana. Non parlavano una parola di inglese né una di tedesco e mi domandai come fossero riusciti a fare il check-in. Erano vestiti quasi da straccioni salvo avere un tono pacatissimo e quasi gioviali. Sguardi spenti e dei segni sul viso da vite difficilissime. Avete presente le scenette che raffigurano l'Est Europa sotto il Comunismo a mo' di presa in giro dei film di Kieślowski? Ecco erano pari pari pure nel vestiario sciatto, grigio: la donna aveva un fazzoletto in testa con decorazioni opache d'altri tempi. Erano fermi in quell'ostello da non si sa quanto tempo e quando me ne andai erano ancora lì a chiacchierare drammaticamente di chissà cosa. Non parlavano, mi sembrò, una lingua slava... 'forse macedoni oppure di posti tipo Tajikistan!', pensai. Fatto sta che continuavano a parlare anche quando ero a due passi da loro di fatto ignorandomi.

Invece chi non disdegnava mai di offrirmi parole di conforto era Taksim: un quarantenne egiziano che si portava appresso del formaggio del suo paese, era a Norimberga per lavoro in attesa di una casa, con la famiglia che lo aspettava a Il Cairo a cui mandava dei soldi. Passai due sere a parlare con lui del più e del meno e trovai tutto così poco armonioso, un po' come la situazione che avevo sfiorato con il mio amico all'ostello di Augsburg: questa immigrazione dai paesi meno benestanti verso la Germania e i paesi industrializzati è insopportabile. Non per l'immigrazione in sé, in fondo anche io ho vissuto all'estero. Ma c'è un grande "ma": questa gente, pur gentile, pur piacevole e leggera come Taksim, non ha assolutamente alcun desiderio culturale di venire a vivere in Germania. Quando a 24 anni mi spostai a Londra ero al settimo cielo, perché si trattava della prima grande esperienza duratura fuori dalle sicurezze di casa, e amavo (e amo ancora) la cultura alternativa britannica sedimentandola nel mio carattere, desiderandola. Brexit permettendo c'è tanto di Inghilterra dentro di me e dentro il mio cuore.

Invece queste persone sono delle mine vaganti in balia del movimento dei soldi, in perpetua ricerca di una stabilità per aiutare il futuro proprio e dei propri cari. Ma perché, dal sesso a pagamento (che per molti può essere davvero importante e aiuterebbe a mio avviso anche a rendere il rapporto Uomo / Donna meno ossessionante e aggressivamente impulsivo) al lavoro e al vivere in un paese, deve essere tutto così? Così poco oliato, poco piacevole, sistematicamente problematico. Persi voglia di festeggiare gli anni, di muovermi e anche di conoscere persone. All'improvviso non vedevo davvero l'ora di tornare a Roma ma c'erano ancora giorni da vivere prima di riprendere l'aereo del ritorno e ancora una volta ho maledetto me stesso per non aver speso un pelino di più per farmi un biglietto aperto. Ma tantè!

Passai il resto delle giornate arrampicandomi sul tetto del castello di Norimberga dove la vista era splendida e con il quaderno del romanzo in grembo, penna in mano e poca voglia di scambi interpersonali. Di tanto in tanto qualche ragazzina si sporgeva per guardarmi incuriosita ma neanche ricambiavo quelle attenzioni: 'tanto che deve fa' co' queste?'. Così vissi la simulazione di un Erasmus immaginario di quando avevo 20 anni e neanche parlavo inglese e che probabilmente si sarebbe risolto in una solitudine costante e qualche amicizia con qualche stronzo latino (italiano o spagnolo o francese) che tanto disprezzavo all'epoca rimasto solo anch'egli. Così mi trascinai fino alla fine del viaggio, con la consapevolezza che se tutto si fosse risolto quantomeno in Austria le cose sarebbero andate giustamente.

Già, perché quella epopea tutto sommato era iniziata davvero benone. Arrivai dopo la camminata notturna per Termini e l'aeroporto a Bratislava fresco come una rosa. Andai al free tour della città presentato da una biondona con cui flirtai a dir poco salvo poi conoscere il suo muscoloso boyfriend. Poi mi presi un gelato nella calura, con io che chiesi una doppia panna e la gelataia che mi disse di non conoscerne l'esistenza, salvo poi, al seguito di una mia risata, chiedermi se fossi italiano e come noi italiani pretendiamo che un gelato di 3 Euro e 50 possa avere tre gusti con panna. Le dissi che nel mio quartiere a Roma c'è una gelateria che tre gusti con panna te li mette a 2 Euro e 50 con cono pralinato e lei sbuffava farfugliando che "it's crazy" eccetera eccetera. Dopo il gelato ebbi uno dei primi bisogni urgentissimi di andare in bagno e mi rinchiusi in un bar in cui finii chiuso... nel senso che poiché mi ero intrufolato senza dir niente a nessuno, la gestrice del posto mi aveva chiuso a chiave con io che urlai "help!" di continuo e presi a cazzotti i muri. Lei tornò ad aprirmi incazzata come una iena (e con un malsano piacere nel farlo che le intuii) urlando a sua volta in slovacco.

Poi alla fine della prima giornata, ancor prima dell'incursione in Ucraina e di tutta la faccenda con Ekateryna e quello che accadde in Austria, ero in stanza da solo seminudo e sicuro che avrei passato così una nottata di riposo assoluto quando... entrarono quattro ragazze belghe, che non dissero nulla e se ne uscirono subito dopo aver posato i bagagli. La biondina del gruppo, che era anche la più bassetta e la meno piacente, mi fissava tutto il tempo nella living room con bar spaziosa in cui un'altra ficona bionda flirtava con un intero gruppo di spagnoli, salvo poi fare amicizia con un inglese anch'egli biondissimo che magari le si confaceva maggiormente. Andai in bagno e la biondina, che ora non ricordo come si chiamasse, mi seguì, poi mi prese per una mano e mi portò nella sala con le lavatrici e le asciugatrici. E lì ricordo solo che fui preso di sorpresa e il suo volto chiuso davanti al mio che gemeva. Non ricordo come fosse fisicamente o meglio me lo posso immaginare... solo mi è rimasta che una vaga idea delle forme, perché di fatto questo fu un viaggio di volti. Molto più di altri... il volto dei miei amici, di questa belga che con le amiche tornava da un viaggio in Polonia in treno e che dopo il "fattaccio" non mi degnò di uno sguardo fino all'addio, delle inglesi e della coreana a Vienna, di Ekateryna al confine con l'Ucraina, della signora dell'ostello a Monaco, dell'egiziano Taksim e dei frequentatori dell'FKK a Norimberga. Di una slovacca che mi toccò il culo in una discoteca in cui andai dopo che avevo scopato con la belga e che poi fu presa di forza da un franco tunisino con la barba di un gruppo di francesi che spingevano di continuo e che, loro sì, sarebbero dovuti essere presi a mazzate.

Bratislava era bellissima, il tipo di città che adoro, e sancì l'inizio delle mie scritture e del romanzo che verrà... col senno di poi, dopo l'Austria sarei tornato a Est magari davvero in un altro posto in Slovacchia. Peraltro una delle cose davvero impressionanti di questo viaggio è constatare come tra slovacchi e austriaci ci sia una differenza etnica notevole, in appena un fazzoletto di terra (e mezzora di pullman)... vedi altri ragazzi e ragazze, altre mentalità, poco miscuglio tra di loro. Allora le razze esistono davvero, anche con una così netta distanza a livello economico... se tra Italia e Svizzera è pieno di cosiddetti "frontalieri" non capisco perché uno slovacco non possa andare a lavorare in Austria... cose che non sono riuscito a captare o approfondire adeguatamente.

Perché in fondo a rimanere sono solo io, con il mio zaino e il giaccone di pelle. Girando per l'ultima volta in lungo e in largo. E una volta tornato a Roma, mi ritrovo stavolta di giorno davanti all'Università, la mia, quella che mi diede una Laurea pseudo-inutile. Senza zaino, senza un bus da prendere per l'aeroporto. Trovo parcheggiata una Fiat degli anni in cui su per giù ero ventenne, mi guardo intorno con circospezione e mi sdraio sul cofano.

Le nuvole all'orizzonte sono scure, ma fa ancora caldo ed è ancora tregua. Ancora per poco.


VP

giovedì 19 dicembre 2019

Star Wars - L'Ascesa Di Skywalker (2019) by J.J. Abrams


Star Wars - The Rise Of Skywalker (2019)
di J.J. Abrams

Daisy Ridley (Rey)
John Boyega (Finn)
Adam Driver (Kylo Ren)
Oscar Isaac (Poe Dameron)
Ian McDiarmid (Emperor Palpatine)
Naomi Ackie (Jannah)
Domhnall Gleeson (General Hux)
Richard E. Grant (General Pryde)


Ultimo Star Wars targato J.J. e speriamo la chiusura totale di un cerchio che regolare qual era si è andato ad ingrossare a furia di scontri e momenti topici dilatati e riproposti con giravolte di sceneggiature continue e martellanti: i diadi se la vedono con Palpatine che davanti ad una platea di seguaci del Lato Oscuro, ma potrebbero anche essere gli Orchi del Signore Degli Anelli riadattati, offre loro la posizione di Imperatore e burattinaio del Male. La Principessa Leila recuperata dagli ultimi fotogrammi di Carrie Fisher, di cui c'è anche il commiato, e l'ologramma di Luke Skywalker invece tirano verso il Bene le rivendicazioni di paternità e di seguito delle istanze Jedi. Il resto è tutta una serie di personaggi ed androidi che si amalgamano con le storie trite e ritrite e i punti di svolta dello script che sembrano esattamente sovrapponibili a tutto ciò che vediamo dal 1977 ad oggi, senza più lo stupore e una coerenza di mondo e di stile del racconto.

In fondo, Rogue One a parte (così bistrattato dai fans che non perdonarono la mancanza del consueto tappetino stellare che scorre verso l'infinito sotto la musica di John Williams e che alla fine si dimostra la migliore cosa fatta dalla Disney con il franchise... e gli stessi fans dovranno finalmente ricredersi), tutte le promesse fatte da J.J. Abrams, che è un animale da televisione, di riportare i fasti di Star Wars ad un'Era di racconto mitico pre-digitale sono state disattese.

Questo ultimo lavoro è il vero volto di un commerciale hollywoodiano che non vuole risparmiare neanche i miti buoni la cui industria è stata capace a produrre e mantenere ad alti standard nei decenni tra film e videogiochi. Un fallimento dei sogni e anche della passione di un fan base tutta. Che ha detto fino ad oggi peste e corna anche della trilogia prequel degli anni 2000 di George Lucas e che forse si renderà conto che La Vendetta Dei Sith (parte 3) al confronto di questo era Amleto.

Qualcuno c'era già arrivato alle inevitabili conclusioni. A parte gli sbadigli non c'è più nulla oltre al frastuono, all'incasso (forse l'unica cosa che conta per qualcun altro) e alla consapevolezza che ogni cosa alla fine mostra il suo vero volto. E non si parla più di Palpatine, purtroppo.


VP

mercoledì 18 dicembre 2019

Pinocchio (2019) by Matteo Garrone


Pinocchio (2019)
di Matteo Garrone

Federico Ielapi (Pinocchio)
Roberto Benigni (Geppetto)
Rocco Papaleo (Gatto)
Massimo Ceccherini (Volpe)
Marine Vacth (Fata Turchina)
Gigi Proietti (Mangiafuoco)
Alida Baldari Calabria (Fata Turchina bambina)
Alessio Di Domenicantonio (Lucignolo)


Il discorso di base è lo stesso che riguardava il Dumbo dato a Tim Burton: prendi il regista che con Sorrentino si litiga la palma dell'italiano talentuoso, quello che si destreggia tra il neorealismo periferico post-moderno di Gomorra e Dogman e il favoloso ricreato de Il Racconto Dei Racconti, e gli dai ovviamente la più famosa fiaba della letteratura italiana. Quella che decretò nel 1940 il successo cinematografico di Walt Disney, con il burattino dagli occhi azzurri e l'espressione ingenua e curiosa, che Luigi Comencini ha convertito in serial televisivo in 5 puntate nel 1972, che Benigni ha usato nel 2002 (sembra un'eternità) per bissare i suoi successi internazionali, cadendo malamente... che ora interpreta nel ruolo di Geppetto (e non del protagonista come nella sua creatura di celluloide) sotto la direzione di Matteo Garrone che va incontro al massacro in partenza.

Pinocchio è una materia da trattare con grande cautela e il rischio di fallire è dietro l'angolo: da una parte c'è un esempio di animazione classica disneyiana che è inarrivabile, dall'altra c'è l'emozione che Comencini, anche grazie al Geppetto "umano" di Nino Manfredi, seppe catturare in forma televisiva 47 anni fa. Davanti c'è l'esperimento di Benigni che è il burrone di melensa banalità in cui si rischia di cadere.

Ma Garrone non è Benigni: Garrone ha un senso della messa in scena che è totale ed è un maestro nel compiere le scelte di regia e di direzione degli attori che hanno di per sé la forza del grande cinema in grado di unire afflato popolare e avanguardia artistica. Così accade che il Geppetto, interpretato da un Benigni vecchio e provato, funzioni a dovere, che il Gatto e la Volpe abbiano la famelica e sottoproletaria amoralità plasmata nei volti di Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini, che sono a paletti la cosa migliore del film, che la Fata Turchina sia effettivamente favolosa da piccina e da grande e che il Grillo Parlante sia teneramente saggio proprio come gli si confà. Il paesaggio della Toscana è magnifico e periferico: unisce il degrado dell'ingiustizia di un mondo difficile alla poetica del sogno di felicità. Il tutto messo insieme non dovrebbe far altro che decretare il miglior Pinocchio possibile in questi anni.

E forse è davvero così... ma siamo anni luce dal modello disneyiano e lontani anche da ciò che fece Luigi Comencini, che era emozionante nelle grandi ingenuità del racconto e della metodologia dello stesso: un'ingenuità che nel '72 era consapevole. Il film di Garrone, al contrario del favoloso Il Racconto Dei Racconti, scorre invece via metodico, calcolato, con una freddezza di fondo che non scioglie i cuori di nessuno: il regista romano è troppo preciso nelle sue scelte e nelle sue idee formali che letteralmente si mangiano ogni emozione spontanea. È, se vogliamo, il contrario dei film di Bresson: se il maestro francese lavorava di sottrazione, anche del pathos, per spremere la tensione da ogni segno del film, Garrone compone un mosaico alla ricerca spasmodica dell'incredibile... a cui non riesce a far credere.

E se a tavolino potevamo anche noi pensare che Garrone, come per l'appunto Tim Burton con Dumbo, potesse essere il miglior interprete contemporaneo delle avventure del burattino, alla fine del film ci viene da pensare che un regista inferiore, anche di molto, avrebbe potuto tirarci fuori una lacrima... e intanto anche insegnare ai bambini a come diventare umani passando per pezzi di legno e asini in cerca di un paese dei balocchi.


VP