ATTENZIONE:
L'articolo in questione contiene spoiler sulle tre stagioni di Twin Peaks, la serie televisiva o per meglio dire il prodotto culturale ideato da David Lynch e Mark Frost. Contiene anche interpretazioni non ufficiali e assolutamente non oggettive. Interpretazioni legate al contesto strettamente meta-filmico, che secondo l'autore, soprattutto in questo caso, viene di gran lunga prima di qualsiasi scenario narrativo.
Buona lettura.
Dedicato al signor G., a tutti i gruppi di discussione sui social network, ai ragazzi dei centri sociali e più in generale all'intera estate del 2017 del sottoscritto. Un'estate inconsueta, priva di spostamenti in giro per il mondo, tutta incentrata su un viaggio ancora più grande, che aspettavamo da tempo e ci ha unito in un'esperienza memorabile.
Una cittadina del nord al confine del Canada. Una cittadina dove si taglia il legno e l'intera economia ruota attorno a ciò. Una nuova mattina fresca, una mattina in cui svegliarsi, truccarsi, andare a pesca, andare a scuola, sistemare i conti dell'albergo. Un sacchetto di plastica sulla spiaggia, l'inizio di un incubo o di un viaggio verso gli alberi scossi dal vento, verso il non visto e il non udito ancora, il non raccontabile e il percepito. In quel sacchetto di plastica alla fine degli anni '80 c'è Laura Palmer, il prototipo perfetto della girl next door americana invidiata dalle compagne e sogno erotico e sentimentale di ogni maschio sulla Terra. Se un'azienda di marketing facesse un sondaggio sui desideri proibiti e inespressi, ancor oggi il profilo risultante avrebbe i boccoli biondi legati da una corona da reginetta, gli occhi chiari, la posa innaturale, piegata leggermente a sinistra, incorniciata d'argento su un mobile in mogano: Sheryl Lee per come l'abbiamo conosciuta ormai quasi tre decadi fa.

Twin Peaks fu venduto in URSS e per i russi quella cittadina era il vero volto dell'America. Chi ha ucciso Laura Palmer? La domanda non fu solo un tormentone televisivo nelle pubblicità, nelle riviste e nel chiacchiericcio comune, ma anche, secondo leggenda a quanto pare veritiera, una delle ultime richieste di Mikhail Gorbaciov a Bush senior. Perché Laura Palmer era l'innocenza perduta, un fiore troppo appariscente e venereo per appassire dentro un sacchetto di plastica. Sacchetto che si apriva ad un volto algido, nordico, freddo, ancora perfettamente conservato.

Ci sono i maghi, c'è l'FBI, il tramite tra i mondi e la guida di abitanti, personaggi e anche dello spettatore stesso. C'è Dale Cooper che è una sorta di pastore presbiteriano vestito da detective che arriva in soccorso di Harry Truman con una grande storia da raccontare e tanto amore per caffè e torte fatte in casa. Ma ciò che l'altrimenti onnisciente Cooper non sa, mentre registra le audiocassette per una fantomatica Diane, è che proprio in quella macchina e in quell'arrivo a Twin Peaks c'è l'inizio del suo viaggio o meglio dei suoi viaggi, ancora più lunghi e torbidi. Viaggi che lo cambieranno, lo depotenzieranno per poi tornare più forte e risolutivo che mai.
C'è David Lynch, che è il massimo regista visionario di questa epoca. Figlio del Surrealismo, di Francis Bacon e di certe improvvisazioni amatoriali di Maya Deren degli anni '40, citazionista del melo anni '50, Douglas Sirk e Come le Foglie Al Vento. Autore geniale con una carriera del tutto unica nella storia del Cinema che amiamo. Da distributore di giornali a regista di un primo film raffazzonato con i soldi dei parenti: Eraserhead. Un trip allucinogeno ed allucinato, buio come la pece, con il pescatore di Twin Peaks nei panni del protagonista che vive in un soggiorno col pavimento a zig zag come la Loggia Nera, fotografie attaccate alla parete di un'esplosione atomica e un figlio cane nel vero senso del termine. Nel breve tempo viene considerato il "film della mezzanotte": ovvero il film che le sale scalcagnate americane proiettano solo ai veri temerari della tenebre. È un capolavoro ammirato perfino da Stanley Kubrick e che apre a Lynch le porte di The Elephant Man, il film freak per eccellenza se escludiamo Tod Browning. Si aprono le porte del Kodak Theatre, nomination a gogo e poi Hollywood, gli anni '80, una storia con Raffaella De Laurentis e il blockbuster di punta della stagione 1984: Dune, prodotto da Dino e riciclato da progetto e scenografie di e per Alejandro Jodorowski.
E da Hollywood si torna giù, negli abissi, nel noir, nella paura alternata al desiderio anche sessuale, al velluto blu e al doppio delle strade perdute che portano alla non risoluzione dell'enigma del ruolo della donna. La discesa dall'Olimpo hollywoodiano, assaporato davvero poco, è l'inizio del mito di David Lynch e del grande successo, di un pubblico borghese finalmente stupito dalle creazioni visive e dalle realtà deformate.
Quando vidi per la prima volta Twin Peaks avevo 7 anni ed ero a letto in quanto reduce da un intervento al cuore. Di quel prodotto mi rimase l'alone di mistero, la disperazione trascendentale che il timbro sonoro di Angelo Badalamenti restituiva perfettamente anche al bimbo qual ero. C'era un filo che mi legava a quell'immaginario e l'avrei scoperto nei decenni a seguire, nei nuovi watch e rewatch con amici da iniziare e una consapevolezza estetica finalmente a portata di mano.
E così iniziò anche lo studio della filmografia lynchiana. Blue Velvet, The Elephant Man, Eraserhead. Alla fine degli anni '90 esce al cinema Strade Perdute e mi fiondo in piena estate al cinema Quirinale in via Nazionale: ci sono solo io quindicenne... è tutto deserto. Un decennio più tardi avrei trovato la sala di INLAND EMPIRE gremita in ogni fila di posti. Come è successo che un autore del genere fosse finito così, tutto ad un tratto, sulle bocche di tanta gente che prima lo relegava a fenomeno secondario rispetto alla grande cinematografia americana? Non mi so dare una risposta e forse non la saprebbe dare neanche Lynch stesso. Che vive il proprio rapporto con i fan in modo del tutto ambiguo: da un lato soddisfatto del suo stile ormai riconosciuto, dall'altro lato seccato delle alchimie che ormai essi richiedono sempre più insistentemente.

David Lynch può sopportare di tutto tranne l'essere scontato e banale. Sa di avere una fan base che ama egli stesso e un'altra legata al suo lavoro televisivo, quello che portò all'eccesso il melo delle soap tanto da farlo diventare epopea orrorifica trascendentale, in cui il simbolo incontra l'archetipo trasformandolo in mistero irrisolto. Hai voglia a rispondere alla fatidica domanda su Laura Palmer, hai voglia a seguire le gesta malefiche di Windom Earle. C'è un ritorno a Twin Peaks che è un ritorno al mito e ai desideri di un popolo di telespettatori.
C'è un Fire Walk With Me girato nel '92 come sfogo autoriale contro il quinto potere, una televisione che si spacca nei titoli di testa e visioni non spiegate, enigmi messi su lì, su una strada morta che più perduta non si può... tante ninna nanne, immagini che fondono cristologia e lirica pop per la non gioia del pubblico di Cannes che fischia alla presentazione.
C'è un nuovo Twin Peaks prodotto dalla Showtime. Un Twin Peaks... che non è Twin Peaks. O meglio è Twin Peaks ma è tutto un fuoco che cammina con noi. Un fuoco che passa per New York, North Dakota e Las Vegas arrivando a toccare anche Buenos Aires. Tocca cosa è diventata la serialità in questi anni così lost, in cui gli sceneggiatori hanno soppiantato i registi, le storie hanno tutte uno sviluppo orizzontale perfetto e in sintonia con i tempi pubblicitari. Ganci, cliffhanger, un pubblico da fidelizzare e che ti segue se lo appaghi. Si potrebbe dire che gli anni 2000 siano l'opposto del '68, quando invece la politica degli autori con la Nouvelle Vague prese il sopravvento nell'immaginario artistico e non solo.
Lynch non ci sta. Insieme al fido Mark Frost progetta la mossa più crudele verso qualsiasi fan base o logica commerciale. Lynch diventa politico e rivendica in tutto e per tutto il primato del regista autore sull'idea del prodotto commerciale. Diventa il Messia di una Rivoluzione, che ancora una volta porta il prodotto mainstream laddove il pubblico, persino quello ubiquo dell'era internettiana, non potrebbe mai arrivare. Un Twin Peaks al di fuori delle comprensioni e delle risposte offerte: l'opera totale di 18 ore in cui il regista è il carnefice e lo spettatore la vittima di un seducente gioco al massacro a suo danno.
Lynch non vuole piacere, Lynch vuole imbracciare il fucile dell'impossibilità della visione. Dissemina la Terza Stagione di tempi dilatati, provoca continuamente lo spettatore odierno, rappresentato perfettamente dal ragazzo ventenne che in un palazzo senza finestre di New York City (buio come i corridoi di Eraserhead e irreale nella sua forma spettrale esterna) è pagato da un misterioso miliardario per fissare un box di vetro trasparente e sempre vuoto finché non accade qualcosa. Una ragazza delle tante riesce ad entrare e i pubblici maschili e femminili, con i propri alter-ego, vengono letteralmente massacrati da un'entità quasi aliena e che probabilmente rappresenta l'Uomo che ragiona.
Un enigma, un segno, una testimonianza per Cooper, che non è solo uno, bensì due: è Bad Cooper, capellone e lampadato a muovere le fila verso Philip Jeffries che non avrà più la forma di David Bowie come nel sogno psichedelico di Fire Walk With Me, bensì quella di una teiera che emana vapori simili a quelli da cui nasceva tanto tempo fa The Elephant Man. Bad Cooper non vuole rientrare nella Loggia Nera, il Cooper buono non può uscirci se non con apposito stratagemma. Servirsi di un tulpa, di un essere creato da una mente (o da un seme a contatto con un capello staccato), che si chiama Dougie Jones e vive a Las Vegas con moglie dagli attributi non indifferenti, un figlio assorto e una puttana da incontrare di tanto in tanto di nome Jade che con generosità "dà due corse".

E invece non è così, lo scopo è ben altro e lo scopriamo a tre ore dal finale, mentre lo stile di Lynch diventa ogni minuto sempre più denso, destrutturato, volto ad aprire quante più domande possibili per ubriacare l'internauta del 2017 di numeri, segni, collegamenti che di fatto ci saranno solo qualora lo stesso spettatore non eleverà se stesso al rango di elemento attivo, chiudere le falle del cerchio con lo strumento vitale dell'interpretazione soggettiva. Non si scappa, Lynch non lascerà al pubblico la comodità di avere risposte assolute.
Un pubblico che non ha più il suo eroe, nell'epoca della moltiplicazione dei supereroi, delle guerre stellari e dei troni di spade, degli sceneggiatori che riadattano le vecchie favole nordiche ai criteri metropolitani odierni. Per un lasso di tempo studiato geometricamente e che corrisponde ai due terzi dell'opera, il Dale Cooper, che con il beneplacito di Mike e degli spiriti della Loggia torna al mondo della commedia umana, prende il posto di Dougie, svuotato completamente della sua abilità, della sua dialettica, dell'umanità superomista su cui ci eravamo adagiati nelle passate stagioni. Il Dougie che torna alla 7 Insurance, sotto la guida del boss ex pugile Bushnell e con una nuova odissea che parte nei Casino di Las Vegas, con un attestato di Mr. Jackpot ogni volta che urla hellooooooo! e tira giù la manovella per finire tempestato di din-din argentati, è un essere amorfo, istintivo e completamente incapace di prendere qualsiasi decisione indipendente. Ripete le ultime parole che gli si dicono, viene condotto da segni mandati dalla Loggia per proteggere il suo inconsapevole operato.

Ma in particolare, con la vicenda di Dougie Jones cosa vorrebbe dirci Lynch? Lynch ci dice una cosa molto precisa: che nella società globalizzata e sovrappopolata a sopravvivere è il personaggio immune da ogni pressione o pericolo. Colui che non ha idee, né intraprendenza: solo così ci si porta dalla propria parte i nemici che la vita ci mette davanti. L'impersonalità, che nel caso dei ragazzi della glass box è negativa di fronte ai misteri della percezione e degli abissi della mente e non solo, nel mondo plastificato che ruota attorno alla città più plasticosa del mondo (ovvero Las Vegas), è una condizione essenziale per non soccombere. E non è un caso che la vicenda di Dougie Jones sia l'unica a regalarci un happy end completo. Una vita falsa, fatta di esistenze altrettanto false: il figlio Sonny Jim continuerà per chissà quanto a correre e saltare sul gym set gentilmente offerto dai fratelli Mitchum. La vita sorriderà a tutti, protagonisti e comparse del noir della West Coast.
Per gli abissi e l'ambiguo, ci si può spostare più a nord o addirittura al centro. Si possono avere assaggi alla Roadhouse, ribattezzata Bang Bang Bar, nelle discussioni del sottobosco sociale di Twin Peaks fatto di ragazzi ubriachi, ragazzine sessualmente attive e con qualche problema cutaneo se non di deambulazione. Tutto aspettando le performance dei gruppi indie che riportano in auge il synth pop degli anni '80 (e come non potrebbe essere visto che la genesi di Twin Peaks è proprio di quegli anni?) traslandolo in ballate electroclash: i Chromatics portano le loro shadows e introducono la presenza di James Hurley che qualche puntata più in là si darà da fare con una riproposizione di Just You, senza però Donna accanto che non sapremo mai che fine abbia fatto. Narrativamente è il buco più grande della stagione. Gli Au Revoir Simone parlano di quanto il mondo sia già violento e infiammabile. Sempre a fine puntata, con uno starring Kyle McLachlan a portata di mano e titoli di coda da scorrere con attenzione in attesa di un punto interrogativo (o tanti punti interrogativi in qualche caso) in più a cui dare una collocazione.
Ma non è sempre così e qui ci addentriamo nel cuore della terza serie, nel vero simbolo dell'opera di Lynch, della sua sfrontatezza e della vanitosa auto-celebrazione del genio visivo e sonoro di cui siamo testimoni come non mai. Puntata 8: Bad Cooper si prende una pallottola dal compare Ray, accorrono gli uomini del legno, che ricordano molto da vicino il barbone dei sogni di Mulholland Drive. Il rito tribale è scandito da una musica lenta e penetrante, che secondo scoop in realtà sarebbe la versione rallentata di un pezzo di Beethoven. La sagoma del volto dell'attore Frank Silva (ovvero il vero killer di Laura Palmer, spirito maligno che vive sotto pelle) esce all'interno di una bolla-feto e poi rientra nel corpo di Bad Cooper. Esso (non egli, "it" e non "he") si risveglia ed è ora di ricordare qualcosa. Qualcosa di grande, una bomba, anzi la madre di tutte le bombe. Qualcosa di esplosivo, naturale e corrosivo, simbolo del male dell'uomo sull'uomo e dell'America come potenza egemone.
È tempo di tornare indietro nel tempo, ma prima, a circa un quarto della puntata si torna alla Roadhouse, dove ci sono nientemeno che i Nine Inch Nails che bombardano il pubblico del locale di urla e risa sotto una base elettronica che più dark non si può. E poi è l'ora del conto alla rovescia, nel New Mexico al ridosso della fine della Seconda Guerra Mondiale, il primo test nucleare della Storia. La bidimensionalità diventa tridimensionale e dentro al nebuloso ammasso radioattivo scopriamo il parto della madre di tutti i mali, The Mother (che forse si chiama Judy) che crea il feto di Bob e un ranocchio alato che un decennio più tardi finirà nella bocca di una preadolescente corteggiata da un giovinotto d'altri tempi e addormentata da una poesia ripetuta a ninna nanna proprio da uno di quegli uomini del legno soccorritori di Bad Cooper: This is the water / and this is the well / drink full and descend / the horse is the white of the eyes / and dark within. È la fine dell'innocenza del mondo e in particolare degli Stati Uniti d'America. Innocenza che 27 anni fa trovavamo nei found footage di Laura Palmer che ballava e sorrideva in telecamera.

Ma per il pubblico generico, il pubblico che vuole appassionarsi alle storie, alle trame, fidelizzare con i personaggi questo non è abbastanza. A metà serie Twin Peaks si scontra con la nuova stagione di Games Of Thrones e cade rovinosamente. La serie di Lynch e Frost si salva con i dati relativi allo streaming ma commercialmente il confronto è devastante. Tanti fan della vecchie serie non si lasciano travolgere dal vortice estetico dello stile lynchano e reclamano chiarezza e anche un pizzico di onestà verso se stessi.
Lynch non cambia, continua ad andare dritto per dritto accumulando personaggi su personaggi, numeri su numeri, definizioni, spiriti, tulpa, rose blu in un ubriacamento ancora senza fine. Intraprende con lo spettatore un vero gioco del gatto col topo a suon di depistaggi. Ad esempio Lynch ci fa credere che Richard e Linda, ovvero due degli indizi iniziali che il Fireman della Loggia Bianca offre ad un Cooper presente "ma lontano", non siano altro che due personaggi che nel corso delle puntate abbiamo già incontrato oppure incontreremo prossimamente o quantomeno già presenti alle discussioni tra altri personaggi. Ma le puntate vanno avanti e mano a mano che ci avviciniamo alla diciottesima ci chiediamo sbigottiti quando Lynch finalmente ci rivelerà i volti che cerchiamo ormai da tanto, troppo tempo.
Certo, Richard potrebbe essere tranquillamente Richard Horne ovvero figlio di Audrey Horne (che arriva in ritardo con una vicenda completamente avulsa dal contesto) e Bad Cooper. Il figlio di uno stupro, giovane indegno, schierato con il lato oscuro della forza e infine sacrificato come Caino dal padre su un monte elettrificato. Linda potrebbe essere un'invalida su una sedia a rotelle di cui Carl Rodd sente parlare all'interno di un furgoncino e che Lynch ci fa credere sia la ragazza un po' nerd che in una delle puntate finali viene rimossa dal tavolo della Roadhouse da due bruti e gattona al centro della sala per poi urlare sul dancefloor. E invece ovviamente non è così.

L'episodio 18 è la fine del sogno. Lynch fa esattamente ciò che nessuno avrebbe potuto mai immaginare. Porta l'universo di Twin Peaks, ma non solo, la finzione scenica, in una dimensione quasi immediatamente al ridosso della realtà nostra. Una dimensione in cui Diane diventa Linda e se ne va, Cooper si sveglia e d'improvviso scopre di chiamarsi Richard. Judy non è un'entità bensì un ristorante in cui fronteggiare cowboy maleducati e prendere le generalità di una cameriera che manca dal lavoro e che è... Laura Palmer. O meglio si chiama Carrie Page (e come potrebbe chiamarsi altrimenti, con la pagina del diario ancora mancante) e vive in un appartamento di merda, di un quartiere di merda, di una città di merda di un mondo di merda: Odessa, non quella sovietica della Corazzata Potëmkin, bensì quella assai meno gloriosa ubicata in Texas (a meno che non si consideri glorioso avere come mascotte della città un jackrabbit).

Potete pensare di tutto, anche il male più assoluto, su Lynch e la sua Arte. Ma ciò che ha fatto nel 2017 è qualcosa di unico. Un prodotto devastante dal punto di vista estetico, delirante, enigmatico, irrisolto e irrisolvibile. E incredibilmente crudo dietro la sua patina estetizzante. È uno dei progetti più velatamente violenti che un artista abbia mai presentato e in quanto violento è strettamente rivoluzionario.
Un regista visionario e surreale, che in altre epoche avrebbe giocato con i generi e con lo studio puramente iconografico, nel 2017 completamente assorbito dalle logiche mercantili, dalla fine ormai ultra ventennale degli ideali di massa, finisce per essere l'ultimo baluardo di una cinematografia essenzialmente politica, che rivendica il primato dell'occhio dell'autore rispetto ad ogni orpello produttivo, logica commerciale e sentimentalismo massificato.
Lynch ci ha mostrato non solo come si girano scene sublimi e rimanere ortodossi e fedeli alla propria linea, ma anche come aggiornare le battaglie del '68 in un mondo così ribaltato rispetto alle dinamiche sociali, umanistiche ed economiche del Novecento.
Per Lynch (e forse questo vale anche per Frost) l'essere diventato negli anni '90 il creatore di un fenomeno mediatico, di costume, leggibile a più strati anche da un pubblico poco ambizioso, è stato letteralmente insopportabile. E perciò non poteva che esserci una vendetta, una vendetta che coincidesse con la fine del sogno; un risveglio totale dal piacere edonistico che vede nell'opera cinematografica sempre più un mero bene di consumo.
Dopo tanto, troppo tempo, qualcuno ha di nuovo toccato il monolite... nuova fiction per una nuova umanità nascerà all'orizzonte.
VP