Avrei già potuto scrivere questo pezzo da almeno 2 mesi: il 20 febbraio tornavo a Roma e la voglia di esprimermi e tirar fuori le storie dall'ancora fresca sacca dei ricordi era forte assai. Ho deciso di aspettare. Aspettare la vigilia del primo maggio come data simbolica per affrontare le emozioni di un posto, una città, che al netto della sua enorme importanza non ho mai sentito del tutto mia e di cui non sono riuscito ad innamorarmi. Una città che m'ha dato tantissimo, a cui non posso che dedicare proprio questo giorno con gratitudine per il percorso offertomi che definirei rilanciante, quasi salvifico, per le mie sorti di disoccupato italiano.
A te che sei città di lavoro (ormai una rarità in Europa) auguro un buon primo maggio: grazie di tutto, Bruxelles!
Com'è vivere all'estero? Una domanda banale che nel 2015 mi riportava a sette anni prima: al 2008, quando di anni ne avevo 24 e trovai improvvisamente un modo per andar via dalla mia famiglia, il salto nel vuoto necessario verso quello che verrà ricordato come il tempo più esaltante di tutti i miei vent'anni. A Londra, a lavorare, a condividere spazi, destini, salari, discoteche, donne, droghe con altri compagni giovanissimi affamati di dignità ed esperienze. Esperienze ed esaltazione che avrei portato per sempre con me, una sacca dentro cui custodire una fetta importante della mia ricchezza culturale e della bellezza dell'essere giovani.
L'autunno del 2015 aveva il sapore nostalgico di un tempo che tornava grazie all'offerta di una seconda possibilità, una seconda vita giovanile fuori casa, per di più con un lavoro in tasca pagato decentemente e di grandissimo fascino: dentro le stanze del potere, i pullman e gli aeroporti erano lontani e non avrei indossato nulla di catarifrangente, anzi sarei stato elegantissimo in mezzo a gente elegante, invidiato dagli esclusi dall'universo che m'aveva scelto.
Ma se a 20 anni desideravo ardentemente Londra, le sue mode, la sua dimensione sospesa tra fascino antico e modernità innalzata dai grattacieli della City, come fuga dall'immobilismo romano, stavolta è diverso, tutto molto diverso. Non solo perché oggi di anni ne ho più di 30, ergo, globalizzazione e tempi moderni permettendo, non sono più giovanissimo, ma anche per la destinazione: mai stato in Belgio né in qualsiasi altro territorio francofono.
Eppure il francese era la lingua a cui andavo meglio (in realtà l'unica a cui andavo bene) in un Liceo Linguistico. Una lingua che capisco molto bene anche se l'ho persa quasi del tutto. Eppure adoro la cultura francese e belga, le cui cinematografie sono veri punti di riferimento tra Nouvelle Vague, Bresson e fratelli Dardenne. Tutti i francesi che ho mai conosciuto in vita m'hanno sempre dato l'impressione di interessarsi davvero alle mie argomentazioni: senza dubbio tra i popoli che capiscono maggiormente il fascino della mia persona. Eppure non ho mai voluto visitare i set di Jean Vigo o la Parigi di A Bout De Souffle come invece ho fatto a Odessa con la scalinata più famosa della Storia del Cinema. Non ho mai desiderato stare o addirittura vivere a Bruxelles.
Com'è vivere in un posto che non hai mai desiderato, che non hai scelto bensì il contrario, e di cui non parli neanche la lingua ufficiale? Una risposta me la diede l'autista del carissimo pullman che da Charleroi m'avrebbe portato a Gare Du Midi: straniante, perché ad ogni mia domanda in inglese corrispondeva una risposta nella lingua locale. Una consuetudine per tutta la mia vita in Belgio.
Il primo impatto con la città non è dei migliori: la non disponibilità del dormitorio a cui mi sono rivolto (scelta costosa e infelice) mi costringe a passare la prima notte in ostello. Finisco in una zona malfamata del quadrante nord-ovest, oltre il fiume provenendo dal centro: alla reception m'avvertono di stare in campana e se a dirlo è uno spagnolo con barbetta hipster allora c'è davvero da crederci. Decido di farmela a piedi dalla zona in cui sono fino al centro e noto tante cose che non mi piacciono, la prima di tutte è quella sgradevolissima sensazione d'essere un intruso in casa d'altri tipico delle zone in cui certe etnie hanno occupato il territorio ghettizzandolo. In parole povere mi ritrovo in terra araba trapiantata nel cuore dell'Europa: gli sguardi che sento addosso, mentre dentro lo zaino ho tutto, tra carte di credito e il mio pesante MacBook con caricabatterie, sono minacciosamente curiosi. Peraltro tutt'attorno ho un deserto di serrande abbassate.
Accelero il passo e supero il ponte cercando di non affaticare troppo i tendini. In prossimità del centro tante ragazze di carnagione scura mi mandano baci a labbra sinuosamente piegate: prostitute di strada. Continuo dritto per dritto e finalmente eccomi in una zona piena di gente, con le attività commerciali in pieno fermento e le attrazioni della città a portata di mano: passo tra le birrerie e gli sterminati negozi di cioccolata che ti seducono con le cascate di denso liquido marrone firmato Godiva (e che faranno gola a mia madre quando mi verrà a trovare), sgattaiolando a destra e sinistra tra trappole per turisti che vogliono farsi spennare con feta e altre primizie greche o finto italiane.
Poi arrivo a Grand Place, il cuore di tutto, dove i turisti si fanno selfie ad ogni angolo e la piazza ti rapisce l'occhio coi suoi ridondanti stucchi dorati: una via di mezzo tra gotico e barocco abbastanza discutibile che se non altro ha un suo perché scenografico. Ho fame e devo ancora comprare tutto: prodotti di igiene intimo e qualcosa con cui riempire lo stomaco. Mi fiondo in uno dei tantissimi Carrefour Express, che come i Delhaize ti offrono prodotti a tutte le ore ad un costo maggiore (in pratica degli Eataly con le lancette dell'orologio al posto della qualità), afferro delle pinzette e lascio scivolare delle piccole baguette dentro un'apposita busta di carta. Poi vado al frigorifero e prendo una cartina/spuntino di salame a un Euro: pazienza se qualche settimana più tardi l'OMS se ne uscirà con gli effetti cancerogeni dei salumi.
Mi piazzo su una panchina dei Jardin du Mont des Arts (appena alle spalle dei musei reali) a consumare il pasto quotidiano mentre un gruppo di giovani, che esibisce una moda hiphop fatta di visiere e catenine placcate argento, mi fissa con un certo sarcasmo che intuisco. Mi godo il panorama di Bruxelles dall'alto e, visto che ci dovrò stare un bel po', obbligo la capacità critica ad addolcirsi, a svendersi un po', concentrarsi sulle cose, sui dettagli, che mi colpiscono più favorevolmente.
Ad esempio una cosa che percepisco da subito è il fascino cosmopolita che di questa città è carattere distintivo: ci sono tutte le razze, non solo quelle segregate dalla diaspora nel proprio quadrante. E se vogliamo tutto questo è davvero sorprendente: a paragone con le altre capitali d'Europa e del mondo, Bruxelles è piccola. La sua superficie si estende per non più di 33 chilometri quadrati per una popolazione complessiva di poco più di 170.000 abitanti: in pratica nulla. E per quanto possa essere piccola, la presenza delle Istituzioni Europee, della NATO e di tutte le maggiori multinazionali del mondo (che qui hanno una sede obbligatoria) la rendono variegata, del tutto immune dal tipico provincialismo delle cittadine. La città più piccola nel quale un topo metropolitano dei Monti Tiburtini come il sottoscritto (allergico all'alta qualità di vita nei piccoli centri) potrebbe mai passare più di 5 notti.
Il giorno seguente prendo alloggio a Saint-Josse-ten-Noode, un comodo sobborgo a maggioranza turca, incastonato tra il Quartiere Europeo, il centro e Schaerbeek col suo Red Light District. Davanti al dormitorio un palazzo alto svetta con un pirotecnico e lampeggiante gioco di led che illumina i giorni nuvolosi e le notti con linee elettriche sgargianti. Alla base due figure umane s'abbracciano a chiappe nude, illuminate dalle luci interne che esaltano la sensualità della scultura: una visione bizzarra in una via di uffici che scende verso il centro commerciale (dove andrò sempre a fare la spesa e a mangiare un buon pesce da Nordsee) per finire all'enorme Sheraton che costeggia il giardino botanico.
Pian piano, oltre il lavoro e lo status di expat in camicia e cravatta che ne deriva, mi approprio dei miei spazi: capisco da subito che gli ambienti istituzionali europei vivono di situazioni e in corridoi parzialmente staccati dal resto della scena. Sì, è vero, il giovedì pomeriggio sono in molti ad accorrere a Place du Luxembourg nel tentativo di mischiarsi agli stagisti e ai funzionari del Parlamento come il sottoscritto. D'altronde la birra a 2 Euro e le tante belle ragazze che popolano le Istituzioni sono un valido incentivo.
Ma è pur altrettanto vero che la vera scena culturale e d'intrattenimento della città ruota attorno a Grand Place e De Brouckère, con birrerie famose come l'affollatissimo Délirium Café o disco pub come il Le Corbeau. Quest'ultimo è un locale davvero grottesco e se nei giorni lavorativi si presenta come uno dei tantissimi pub della zona, ogni venerdì e sabato notte cambia pelle per diventare una discoteca in cui la gente balla sui tavoli. Ebbene sì: i belgi (e tutti quelli che dal Belgio sono stati adottati) vanno matti per questa "enorme trasgressione". Pure io, in gioiosa compagnia di ragazzi e ragazze spagnole, polacche, svedesi, belghe che mi ci portano come seconda tappa di una serata alcolica, mi presto ai costumi locali e faccio valere i miei 100 kg coi tavoli che tremano al ritmo di Barbie Girl e ... Baby One More Time.
Per chi è poco affine al caos del centro e agli ambienti europei (che chiaramente prendono vita sempre nei dintorni dei palazzi istituzionali, tra la lunghissima, dal sottoscritto quotidianamente percorsa, Arts-loi e Trone) ci sono le scene alternative, che si dividono tra St. Catherine, St. Gilles e Flagey. Qui è un via vai di gente di tutti i tipi, swingers delle più svariate forme e dei più svariati gusti. È il punto d'incontro tra tutte le tipologie umane che vivono e popolano Bruxelles, i posti in cui la conoscenza può anche avvenire in piazza e non solo tra i banconi dei bar pieni di ottime Chimay blue o Leffe alla spina.
Durante il giorno in questi posti si tengono i mercati, dove i giovani salutisti comprano le melanzane fresche a pochi Euro e i menu vegani fanno capolino alle entrate delle mense. Una gioventù alternativa che è anche benestante, perché a Bruxelles (così come a Londra e non è un caso che i più grandi innamorati della città che incontro siano proprio britannici) c'è il lavoro, ci sono le opportunità, i soldi girano: anche la vita alternativa è operosa.
Ma, proprio come avevo visto il primo giorno, non per tutti è così: anche in una città di lavoro e di lavoratori come questa c'è chi non ce la fa e al cospetto quotidiano del benessere degli altri si chiude nella propria comunità e progetta il terrore. Non tutti sono come il mendicante sulla quarantina che incontro ogni giorno prima d'andare al lavoro, sempre in ginocchio, a testa bassa, con un cartello in mano con su scritto "ho fame" (e chissà cosa avrà pensato di me ogni volta che i nostri sguardi si sono incrociati, avrà mai immaginato che in realtà nel mio paese natale io sia un disoccupato proprio come lui?). C'è chi trama e tesse le fila direttamente col Medio Oriente.
Bruxelles è anche la capitale del jihadismo: da qui vengono tutte le organizzazioni islamiche che la Democrazia vorrebbero combatterla per ripristinare un modo di vivere sacrale, puro e integralista. E quando si parla di jihadismo non si può che parlare di Molenbeek.
Situato ad ovest, nelle immediate vicinanze col centro e St. Catherine, al di là del fiume, questo sobborgo registra un tasso di disoccupazione a livelli allarmanti che colpisce la seconda/terza generazione di immigrati arabi che qui ormai sono di casa. Ci passo con una biondissima ragazza tedesca di origini polacche che mi porta ad un locale jazz proprio a due passi (ma al di qua del ponte) e si rifiuta di parcheggiare anche se all'imbocco del quartiere di posti macchina ce ne starebbero a iosa.
Ci torno da solo qualche giorno più in là per confermare le mie prime impressioni: Molenbeek non ha nulla di un classico quartiere bunker come potrebbero essere Scampia e Tor Bella Monaca. Non appare come una Casbah né come un multietnico centro tipo Brixton. In realtà Molenbeek è un insieme di complessi residenziali anonimi a basso costo, costruiti ai lati di strade semivuote che fanno diventare sordo ogni tuo passo. Il senso di malessere è dato più dall'assenza di strutture e capitale umano che dalle noie della microcriminalità e della povera gente.
Il 13 novembre ero in un pub di Place du Luxembourg a farmi prendere in giro dai belgi mentre sugli schermi passavano le immagini dell'amichevole Belgio - Italia in diretta dall'Heysel (vinta 3 a 1 dai padroni di casa). Accanto c'era anche un gruppo di francesi che guardava l'altra amichevole in programma: Francia - Germania dallo Stade de France. All'improvviso attorno a me tutti si alzano e la partita del Belgio (che terminava trionfalmente) passa in cavalleria. L'attenzione va su Parigi: spari, urla, gente che si riversa sul terreno di gioco.
È la notte del Bataclan, la notte in cui l'Europa sprofonda nell'incubo con tutti i suoi valori. E sprofonda anche Bruxelles, perché l'esecutore delle stragi è proprio un suo figlio, anzi no, un figlio di Molenbeek, un figlio dell'ondata migratoria dai paesi arabi verso i diritti umani. Ciò che ne consegue è sconcerto e angoscia, soprattutto ai miei occhi: tutto accade esattamente la settimana prima della Plenaria Europea a Strasburgo dove mi mandano in missione. In pratica non solo mi ritrovo in una città che da un momento all'altro viene presa in custodia dall'esercito, con le sirene della polizia che diventano la colonna sonora delle giornate: mi ritrovo a dovermi mettere in viaggio in un clima di terrore, per giunta proprio verso il paese colpito. E un piacevole giro in treno attraverso il Benelux diventa un ostico passaggio di frontiera (chiusa) tra Lussemburgo e Francia.
I giorni precedenti alla missione sono caratterizzati dai controlli costanti per entrare al lavoro e un'allerta massima che di fatto rende Bruxelles una città fantasma. Nessuno esce, tutti hanno paura. Chiudono metro e negozi. Preso dalla sconforto di un weekend praticamente morto, decido di trasgredire e vivere la situazione in modo edonistico: esco di sabato notte. Non avevo mai visto o vissuto un coprifuoco e d'improvviso mi trovo solo nel buio più totale e in un silenzio di tomba: ogni tanto sfreccia una volante e un militare mi guarda da lontano per capire le mie intenzioni. Un giro di mezzora è abbastanza: torno al rifugio sperando bene per l'immediato futuro.
A Natale Bruxelles sembra dimenticare gli orrori passati: i negozi si riempiono di palle colorate e anche a Grand Place svetta un super albero sul Presepio che ci ricorda di essere tutti più buoni. Io decido di rimanere e approfittare delle vacanze per una visita ai musei reali (quello di Magritte è un po' deludente rispetto le attese, mi rifaccio con La Morte De Marat del romantico David che avevo sempre sognato di vedere) e di tutta la zona, staccata dal resto della città, dell'Heysel coi padiglioni del vecchio Expo del 1958, il celebre incrocio di palle dell'Atomium (simbolo della città insieme al Manneken Piss) e un'alquanto triste Europa in miniatura. Appena sceso dalla metro guardo lo Stadio e penso ai 39 morti della Finale di Coppa Dei Campioni dell'85: angeli bianconeri dilaniati dall'ignoranza di un popolo di esaltati con tanta birra in corpo e violenza nei cervelli. Rifletto sui possibili paralleli tra ciò che accadde allora e ciò che succede oggi in Europa coi migranti che arrivano dal mare e il terrorismo: non ne trovo poi così tanti. Il pensiero più profondo è che, in fondo, se ti deve andar male non è che poi ci sia così tanto da fare. È la Storia, baby.
Ti può capitare di finire in una vetrina illuminata di fucsia insieme a colleghe greche, bulgare e rumene che scappano dalla crisi e un giorno torneranno in patria coi soldi guadagnati grazie alle molteplici aperture che Madre Natura ha donato loro; così come ti può capitare di finire a Molenbeek e provare sul tuo corpo le ingiustizie di un libero mercato incapace di creare felicità per tutti; così come ti può capitare di lavorare al Parlamento Europeo e vagare giorno dopo giorno per la città cercando di rispondere alle tante domande che ancora t'assillano.
Chi sono i veri abitanti di qui? Quanto possono essere definiti bruxellois gli italiani che hanno aperto le pizzerie a Port De Namur o gli arabi dei quartieri poveri o gli inglesi o gli spagnoli che lavorano da più di 20 anni in Commissione? Qual è e dove è il vero tessuto sociale di questa città, ammesso che ne esista uno? Si sarà resa conto mia madre, che m'è venuta a trovare l'ultima settimana, che tutti gli italiani e i greci che vivono qui hanno ricreato il proprio habitat naturale in un contesto sano e produttivo oppure penserà ancora che tutto il mondo è paese e che ogni popolo dovrebbe rimanere nella propria terra, anche la più corrotta e malata? Quanto Bruxelles è capitale del Belgio e quanto capitale dell'intera Unione Europea? Come era questo posto ad esempio 30 anni fa, quando l'UE non era così allargata e relativamente meno invasiva rispetto alle politiche di ogni singolo paese?
A quest'ultima cercai di trovare una risposta in un racconto del '79 firmato Pier Vittorio Tondelli: Viaggio, da Altri Libertini. Un gruppo di giovani italiani gay si fa beffe degli stranieri con cui convivono a Bruxelles (seminando scherzi e batteri del lavandino sugli spaghetti dati in pasto) per poi spostarsi ad Amsterdam coi sentimenti, le pere e le inculate. Tondelli parlava di Grand Place, della Cattedrale, del Quartiere Europeo, di tutti gli ambienti che in questi mesi ho vissuto in prima persona: eppure l'unica cosa a venire a galla è l'esaltazione del passare tempo all'estero, lontano dagli occhi indiscreti della provincia emiliana.
Ci rinuncio e all'ulteriore quesito della mia amica Valeria (che a Bruxelles c'è venuta a vivere stabilmente, da Roma dove ci conoscemmo ad una manifestazione dei grillini) "sei sicuro che non tornerai qui a lavorare?" anche stavolta rimango fermo senza proferire parola.
Prendo un taxi per l'aeroporto e mi godo le ultime immagini di una città che m'ha accolto e che non ho saputo tramutare anche nella "mia" di città. Dopo tutto il lavoro svolto bene e le esperienze passate tra eventi, ricordi, coprifuoco e feste, sono pronto a tornare a casa senza troppe alterazioni. C'è solo la consapevolezza d'avercela fatta, d'aver vissuto tutto ciò come ultimo scampolo di giovinezza da expat all'estero. Torno a Roma, torno in famiglia.
Proprio mia nonna, qualche settimana dopo, mi agita la mattina presto, mentre ancora ho gli occhi chiusi e la faccia premuta sul cuscino: "attentato a Bruxelles, ci sono tanti morti e feriti, proprio dove lavoravi tu!". Mi sveglio e con calma mi metto su Internet: è tutto vero, Bruxelles è stata di nuovo colpita dal terrore, stavolta con spargimenti di sangue. È successo a Zavantem, da dove ho preso l'aereo di ritorno, e alla stazione della metro che usavo abitualmente per recarmi dal dentista. L'esecutore era di Schaerbeek, in pratica sotto il mio dormitorio.
Contatto tutti i miei ex colleghi, mi sincero delle condizioni degli amici rimasti e una fitta mi punge il cuore: ho voglia di piangere. Io non amo Bruxelles, per quanto sia grato dell'esperienza offertami non provo grandi sentimenti per una città che ho sempre definito bruttina a famigliari e amici su Skype. Eppure il terrore ha toccato anche qualcosa di mio: forse di Bruxelles qualcosa m'è rimasta. E ogni volta che penserò ad un'occasione di lavoro o alla voglia di fuggire da questa Italietta immobile, la destinazione più vicina dei miei pensieri non sarà più Londra come è stato per 7 lunghi anni.
Forse ancora non me ne rendo conto, ma anch'io sono stato un bruxellois.
VP