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venerdì 24 giugno 2016

UNIONE EUROPEA (24/06/2016)

Oggi è un giorno storico e parzialmente triste. Dico parzialmente perché alla lunga la Tradizione e la reazione al nuovo si piegano all'avvento del Progresso, come un'onda si ciba dell'altra nel mare in tempesta (e magari con tanti barconi di migranti in procinto d'arrivare a destinazione). Oggi la Gran Bretagna, l'amata Londra con le sue avanguardie rese effervescenti dal Mercato in movimento, ci lascia. Si prende l'onere di spiegare al mondo che una separazione dal resto del Continente, di cui è storicamente protagonista, è possibile. Lo fa grazie al suo elettorato più tradizionalista, secondo stime il più anziano e meno abituato ad un'idea di comunione con altri popoli e razze in una piattaforma unica individuale.

Io, che nelle Istituzioni Europee quest'anno c'ho lavorato (molto bene), non posso tirarmi indietro nel dedicare ai miei ex compagni britannici (peraltro tra i più amichevoli all'interno del Parlamento e tra i più riconoscenti al termine dell'esperienza) un'idea di ciò che è stata, quest'anno come non mai, l'Europa, la nostra Europa.

Cercando di lasciare le retoriche e i naturali sentimentalismi da parte, nel possibile.


Questa storia ha un inizio lontano. Per tutti. E per tutti è un inizio diverso. Racconterò il mio e credo che ogni giovane uomo dell'Europa Occidentale ci si possa rivedere, nonché usare le mie memorie come porta per la propria.

Era un giorno piovoso dei primi anni '90 ed ero appena tornato a Roma da una vacanza nel Nord Africa con mia madre e il suo compagno; passammo in ufficio di quest'ultimo, che doveva sbrigare cose per l'agenzia di viaggi di cui era direttore, e m'accomodai ad una scrivania con davanti un computer e i quadratini da spuntare di Minesweeper. Un suo giovane collaboratore all'improvviso gli domandò: "com'è la questione della Cecoslovacchia? Di quale paese ora Praga è capitale?". Risposi io correttamente. Tutti in ufficio rimasero stupiti: ero un bambino e già sapevo cose che oggi farebbero ridere il più emarginato dei contadini, ma all'epoca non erano così scontate, in mancanza di Internet, con referenti quotidiani e i tour operator da contattare telefonicamente. Perché a 8 anni io sapevo che Praga fosse divenuta la capitale della Repubblica Ceca e Bratislava della Slovacchia? Perché ero affascinato dal mondo ex comunista, quel mondo che sembrava geograficamente così vicino eppure era così lontano, tanto che dalle esperienze finora fatte avevo capito che l'Egitto o la Tunisia fossero mete più facilmente raggiungibili per quanto non membri del mio stesso continente. Allora non immaginavo che qualche decennio più tardi i paesi di quel blocco sarebbero stati centrali nel mio percorso formativo, percorsi di frontiere e immaginari da superare. Per andare in Cecoslovacchia o posti limitrofi a quel tempo c'era bisogno del Visto, nessuno ti incentivava a partire, una volta superati gli scogli burocratici e linguistici venivi trattato da straniero (un turista) a cui dare un buon (falso) ricordo di sé.

Io Praga la volevo, desideravo fosse anche una città mia, da raggiungere quando mi paresse senza alcun impedimento. Magari non sapevo dove fossero Messina, Grosseto, Carpi, Pavia o Novara e a dire il vero non è che me ne fregasse tantissimo: Roma a parte non avevo alcun interesse per l'Italia. Invece per Praga sì, eccome se ce ne avevo. Desideravo un mondo in cui arrivare a Londra, Berlino, Praga, Varsavia, Stoccolma fosse più facile e considerato nella norma. Più normale che arrivare nei paesini sperduti della Sicilia o della Brianza che non mi rappresentavano affatto. E all'epoca, molto prima dei low cost, prendere l'aereo era un'esperienza tutto sommato inedita per la maggior parte della popolazione. Ci si muoveva ancora su gomma, si andava in Sardegna col traghetto o a Otranto o a Padova per le meraviglie del Palladio. Ero già stanco dell'Italia, volevo qualcosa di più per prendere una mia strada individuale: spezzare le cinghie di una famiglia (la mia) ancora legatissima al territorio. Il mondo dei miei nonni, del duro lavoro per portare il pane a tavola e avere un tetto definitivo che t'inchioda a tempo indeterminato, degli sposalizi e dei figli, i pranzi la domenica e le villeggiature sempre nello stesso luogo, ad appena 2 ore di macchina da Roma, con un vicinato con cui proteggersi a vicenda dai fantasmi che s'aggirano all'esterno, a me non andava giù. Volevo invece condividere il mio essere giovane di una capitale europea con altri giovani di altre capitali. Iniziava il mio rifiuto del provincialismo, dell'attaccamento ai valori della terra che ancora oggi sono fondanti di entrambi i miei nuclei famigliari. È questo l'inizio dell'Unione Europea.


L'Unione Europea è una favola. Una favola figlia del benessere e di un altissimo grado di istruzione per tutti coloro che vogliono usufruirne. Una favola della protezione del diverso e dell'innalzamento di uno standard dei Diritti Umani sotto il quale non si potrà mai scendere. Mai nella vita. Mai più un Ceaușescu, anche dovesse venir eletto dal popolo. Perché il popolo non è quasi mai coscienzioso e ha una testa che spesso dà il via libera ai bisogni della pancia. L'Unione Europea è una favola del Capitalismo e del libero mercato e del Capitalismo vive anche le contraddizioni, le speculazioni bancarie, la povertà in aree geografiche dove l'industria non la fa da padrona: come la Grecia non sarà mai più ricca della Germania, così la Sassonia non sarà mai più ricca della Bavaria. Premia lo spostamento di persone e capitali, il cambio di vita e la messa in discussione di ogni base economica. Questi lati oscuri possono mai oscurare le libertà intellettuali o le uguaglianze etniche? Per me no, per altri, anche all'interno della mia famiglia, sì.

Perché ovviamente un mondo di questo tipo, che si nutre di inter-rail, Erasmus, programmi di scambio, amicizie e fidanzamenti con gente di paesi e culture sempre così lontane e così vicine, senza dubbio una cosa disincentiva: un percorso stabile secondo tradizioni nazionali consolidate. I matrimoni e le nascite. Gli europei hanno paura del futuro perché da 70 anni non sono più abituati a convivere con l'idea di una morte prematura magari per mano di una granata; da ciò attingono il terrorismo di marca religiosa e gli scetticismi di tutta quella parte della popolazione che proprio non ci sta a modificare velocemente le proprie conquiste. Conquiste che cozzano con un'economia mobile e funzionante, in cui la tecnologia e il Progresso corrono all'impazzata senza che i popoli riescano a tenergli testa.

Quando il Parlamento Europeo mi scelse per uno dei suoi dipartimenti, non ci volevo credere. Non mi piace la Politica, non l'ho mai amata, ho sempre votato Radicali in quanto forza extraparlamentare, perché per me le battaglie migliori sono quelle che si fanno all'esterno. Eppure quanto ero felice! L'Europa è in me, io appartengo all'Europa e vivrei malissimo senza Europa, anche con un impiego stabile e qualche soldo in più che invece per molta gente fa la differenza.

Il primo giorno a Bruxelles l'emozione era tanta, mentre mi spiegavano il lavoro (dovevo proiettare le news sugli schermi del Parlamento) le lacrime sgorgavano. Era l'inizio di un sogno forse arrivato troppo tardi, a 32 anni. E questo sogno ho provato a viverlo tutti i giorni, senza interruzioni. Di cose ne ho viste e scoperte tante.

Esempi? La bufala del latte in polvere tesa a gettare fango sulle Istituzioni, il numero mostruoso di compagnie greche (e di altre nazioni in crisi) che s'appoggiano all'Europa, a fronte di numeri ridicoli per ciò che invece riguarda i paesi più ricchi (i partner scandinavi ad esempio sono una penuria). Le attività connesse al Parlamento che hanno portato in luce le differenze culturali di ogni singola nazione rappresentata: francesi, inglesi, tedeschi e nordici hanno sempre la tendenza a frequentare e appoggiarsi agli eventi ed agli ambienti ufficiali, est europei e latini (non a caso le nazioni meno organizzate e che si nutrono di anti-Politica), italiani in testa, sono i più indipendenti e restii a rimanere nell'orbita dell'ufficialità. Cercano spazi più personali e avulsi, che non godono invece della credibilità dei nordici occidentali. I britannici t'includono nelle confraternite e anche dopo mesi dall'ultima volta che vi siete visti ti trattano da membro, ricordando con toni epici le non sempre interessanti esperienze comuni. I francofoni hanno sempre il naso un po' all'insù, i polacchi e i baltici sentono maggiormente la competizione ma in un modo tutto loro. Gli italiani si fanno ben volere e vivono di un edonismo dai tratti malinconici nascosti col sorriso, sputtanano il loro paese con convinzione, quando invece lo scandalo Mercedes gli permetterebbe di alzare la testa ad esempio nei confronti dei tedeschi, che invece si proteggono a vicenda col silenzio in attesa tutto passi. Gli spagnoli fanno sempre un gran chiasso in branco, poco propensi a parlare lingue straniere.

Tanti colori di un'unità di cui noi siamo tra i primissimi genitori. Il popolo insorge, anche davanti al Parlamento, magari con bandiere russe, pronto a rivendicare il diritto a battere moneta, il Signoraggio che permette giochi economici fini a se stessi che magari tappano le falle temporaneamente. Popolo che dall'interno delle stanze del potere sembra così lontano: le braccia dell'architettura connettono tutti i palazzi con ingressi presieduti dall'esercito. L'esterno era esterno, noi ci cullavamo dei nostri desideri di leggerezza. Nessuna spinta indipendentista fino ad allora ci aveva mai minacciato. Fino ad allora.

E mentre salutavo un romano chiedendomi chi fosse e perché conoscesse il mio nome, un rumeno che mi trattava da amico e una biondina francese dall'eleganza sofisticata che pareva snobbarti anche con un sorriso, l'unica domanda che potevo farmi era: 'saremo mai un giorno davvero tutti uniti?'.


VP