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domenica 11 ottobre 2015

UMBRIA EXPRESS (11/10/2015)

ATTENZIONE:

L'articolo in questione ha a che vedere direttamente con l'esperienza di vita del sottoscritto. Un'esperienza che gli ha imposto di passare tempo in un determinato luogo al di là delle sue volontà.

È necessario specificare (in questo caso ancor più degli altri) che il vero tema centrale del topic non è tanto una regione che conosco relativamente poco, né tantomeno la gente che vi abita.

Il vero protagonista di questa storia sono io con la mia famiglia materna.

S'invita dunque a interpretare il contenuto dell'articolo nel giusto modo ovvero come la vicenda di un adolescente che si ritrova d'estate in una casa, un paese, da cui cerca di alienarsi nei modi possibili.

Buona lettura.


Dedicato a Lorenzo e alla sua ragazza.


Un giorno di primavera di metà anni '90 mamma ed io andiamo a mangiare dai nonni. Io mi siedo sul letto e a testa bassa sfoglio una copia de Il Messaggero, controllo notizie sportive e di spettacolo e, tra una recensione e la programmazione dei film al cinema, non mi rendo conto che in cucina e in sala da pranzo non si parla delle solite robe (che spaziano su per giù dagli sfoghi lavorativi alla roba da pagare alla posta). Sembra tutto come sempre: mamma urla per farsi sentire, nonno borbotta, nonna intanto toglie le pentole dal fuoco. Invece non è così: quel giorno è l'inizio di qualcosa, qualcosa di nuovo.

Qualcosa che potrei leggere nel viso fiero di nonno se alzassi un po' lo sguardo verso di lui. Qualcosa con la quale avrei avuto a che fare direttamente, con cui mi sarei scontrato senza compiere neanche mezzo passo verso di essa. Ma allora non mi sembra nulla di che, niente che catturi la mia attenzione di adolescente cinefilo affamato di esperienze: d'altronde 'che cazzo è Marsciano?' Cosa potrò mai centrare io con quel nome (di cosa? Un paese, un fiume, un lago, una città?). Termino il pasto e me ne torno a casa, a fantasticare sui desideri. Poi vado al cinema e passo un bellissimo pomeriggio.

Un giorno d'estate sono pronto a uscire: danno Strade Perdute di David Lynch al Quirinale e non me lo perderei per nulla al mondo. Preparo lo zaino con gli ultimi numeri di CIAK e Film TV da leggere sulla metro. Poi però, chiuse le zip e pronto a partire, mamma mi ferma irrompendo nella stanza: "preparati, andiamo via!". Cosa? D'improvviso sono le tenebre: tento di protestare, di dire le mie ragioni, persino di ribellarmi ad alta voce e invece no: "dobbiamo andare e non voglio sentir fiatare!".

Mi chiudo in bagno e piango: non è la prima volta che mamma si comporta in questa maniera e so di non avere alternative alla rassegnazione. Quell'episodio è un mezzo che mi riporta a quando di anni ne avevo 6 e una mattina, al posto di andare a scuola, mamma mi preparò uno zaino per farmi ricoverare direttamente all'ospedale. Così, di punto in bianco, anche in quell'occasione mi ritrovai in un imprevisto orchestrato che scalfì di tanto il mio carattere: tutt'oggi ho bisogno di programmazione, di avere un controllo sulle mie esperienze alla media distanza, di non dar tregua alle pretese degli altri di stravolgermi la quotidianità.

A 6 anni fu l'inizio della mia lunga avventura ospedaliera, a 14 anni l'inizio del mio rapporto con l'Umbria. "Dove andiamo?". "Al paese di nonno". "E per quanto?". "Non lo so, qui a Roma non si può stare d'estate: non si respira. E poi da nonno ci stanno tutti". Per tutti s'intende zio, zia, il resto dei parenti da parte di mamma. In pratica è un remake molto più pesante di ciò che fin da bambino ho vissuto in Sabina con gli altri nonni, quelli invece paterni: ogni estate finivo in questo paese dove risiedono parte delle mie radici, a contatto col provincialismo, a salutare le vecchie che mi benedivano chiamando in causa anche Dio.

Solo che il paese in Sabina dei nonni paterni è grande abbastanza per regalarmi qualche minuto d'intimità e, anche se nonna ha la tendenza a invitare troppa gente per provare i nuovi biscottoni fatti a mano, l'appartamento mi dà una grossa mano a estraniarmi e pensare pur sempre alle mie cose in attesa che l'autunno arrivi.

Invece stavolta finisco in un borghetto medievale romantico con viste panoramiche sulla campagna circostante. Paese di pochissime anime, con le mura antiche quanto il Sacro Romano Impero Germanico, una piazzetta come punto di ritrovo. La casa è una villetta a due piani e c'è praticamente tutto il mio nucleo famigliare escluso mio padre, la mia stanza è da condividere nientemeno che con mamma. Praticamente non ho un attimo di tregua: apro una porta e trovo mio zio, ne apro un'altra e trovo mio nonno col volto soddisfatto per aver esaudito il sogno d'esser tornato al suo paese natale (da emigrante a Roma qual era nel Dopoguerra), ne apro altre e trovo nonna, cugini, prozii.

Al di fuori di quel nido c'è il mondo: ovvero l'asfalto delle strade che portano a Perugia con la campagna ai lati. Io, che la campagna non la amo e ho pure la fobia degli insetti, mi trovo all'angolo con tutta una serie di elementi avversi che mi si scatenano addosso. Nonna m'accoglie con grandi entusiasmi, mi mostra l'universo tanto agognato dal marito per anni e m'invita a uscire, a fare amicizia con gli altri ragazzi del posto: in pratica i figli o i nipoti delle stesse persone che si conoscono da una vita.

Mi spinge a raggiungere uno spiazzale, dove qualche anima in bilico tra la pubertà e l'adolescenza mi guarda curiosa. Mi sento un'attrattiva, un papabile interlocutore per discorsi di provincia sulla provincia tipo "ah voi di città...". Solo che il ruolo del ragazzo di città in villeggiatura nel paese di campagna mi faceva già schifissimo nella Sabina paterna, figuriamoci in un luogo ancor più campagnolo e ancor più lontano da Roma.

Torno a casa immediatamente e mi barrico in stanza: decido di rigettare del tutto la situazione e rifugiarmi nella letteratura, nel dolce far niente, cercando di sfuggire ai tentacoli dei nonni che vorrebbero che io in un contesto del genere ci stessi bene. Lui mi stimola raccontando il suo passato: dai Nazisti che uccisero un uomo che piangeva invocando la mamma (e i crucchi perfidi si facevano gran risate davanti alla miseria) a egli stesso che scoperchiava una tomba nei dintorni a quando ingurgitò la bellezza di 25 salsicce salvo poi finire dal dottore che gli ordinò di farsi una corsetta con tanto di "ma vaffanculo!".

Nonna invece si comporta in modo assai meno sensibile: cerca letteralmente di spingermi fuori dal portone, mi presenta altri ragazzi con la grazia diplomatica di un'educanda del Dopoguerra. Un giorno arriva addirittura a staccare la luce per indurmi ad andare a dormire, mentre in TV guardo un film del ciclo Notte Horror: per lei sono un bambino da educare allo stare con gli altri, sono uno come tutti, uno che deve smussare la propria particolarità spigolosa per rientrare nel girone dei normali.

Pure i miei zii (sensibilmente più giovani) si trovano a meraviglia in questa dimensione tra il bucolico e la "Buona Domenica tutta l'estate": a zia andrebbe persino bene trasferirsi in un posto del genere. Hanno i miei cuginetti, vuoi mettere crescerli in un nido di fiducia, in cui il pericolo più grande è una vespa che ti ronza attorno, rispetto al caos di Colli Aniene?

Così rimango solo e con la voglia assoluta di farmi vedere il meno possibile.

Mamma, nonni, zii: le hanno provate tutte a farmi piacere l'Umbria. Una capatina al lago per pescare (e a me la pesca non tira), una capatina a Perugia, una passeggiata notturna tutti insieme, una gita nei borghi medievali tipo Todi, un'iscrizione in piscina, un film nella multisala del centro commerciale. Infine portare gli amichetti: Federico, il mio teutonico compare di allora, viene e non solo rimaniamo intere giornate a giocare col mio vecchio Nintendo (Super Mario, il primo Zelda, Star Wars), ma dopo che egli se ne torna a Roma io finisco all'ospedale.

Immaginate un posto al quale non volete bene di certo, in una condizione psicologica di quel tipo, con in più una bella nuova cicatrice sul petto (in pratica ho rimosso i ganci che mi chiudevano lo sterno dai tempi della prima operazione): così per più di due settimane faccio spola tra la camera da letto e il bagno completamente atterrito. Penso che ad ogni periodo di tranquillità e benessere si alterni un altro nefasto da passare all'ospedale o in Umbria: stavolta è il turno di entrambi.

Finalmente mi preparo alla guerra: al paese di mio nonno non ci voglio più tornare. Rimando al mittente tutte le proposte da mamma e nonna. Zio vorrebbe farmi ragionare: non è bello che non ci sia alle cene coi parenti al gran completo. Rifiuto ancora e litigo praticamente con tutti. Ripeto che non c'è nulla, davvero nulla, che possa attrarmi di nuovo verso l'Umbria, le prediche di mamma non mi colpiscono più: preferisco andare in Sabina e stare in tranquillità.

Invece una cosa c'è che mi porta a tornare da nonno, stavolta addirittura d'inverno: la Roma in trasferta. È il 2000, io ho 16 anni, e la prima Roma di Capello, lanciatissima verso il Quarto Posto, fa visita al Perugia: andiamo nonno, io e i miei prozii Elio e Giorgio.

Quest'ultimo è una persona davvero speciale: l'unica per cui probabilmente tornerei a Perugia spesso. Si tratta di un gioviale rappresentante della Buitoni che viaggia in Italia e all'estero (persino in Giappone) per esportare i prodotti commerciali. Nel sorriso che non gli manca mai ha la solarità del bambino che scopre una meraviglia: fin dalle prime volte che l'incontrai (ed ero molto piccolo) ci ho sempre parlato con rispetto reciproco e senza grotteschi infantilismi. Probabilmente è la prima persona che mi ha concesso una credibilità di individuo. Lui e la moglie Urbana sono due immagini sporadiche del mio passato legate alla simpatia e alla voglia di stare insieme.

Una storia che mi raccontava sempre zio Giorgio era quella dei romanisti che si recavano a Perugia negli anni '70: "dove sta il campetto?" domandavano agli umbri. Poi il Perugia distribuiva legnate e il campetto diveniva fatale.

L'anno che la Roma è ad alti livelli (anche se alla fine non arriviamo sopra il Sesto Posto) non posso perdermi l'occasione di andare in trasferta... nella Curva del Perugia. Così mi ritrovo a saltellare mentre il coro "chi non salta è un romano di merda" sale e coinvolge tutto il settore. I romanisti mi stanno davanti e ai goal di Nakata e Montella devo trattenermi mentre l'intera tifoseria di cui invece faccio parte m'insulta a più non posso. Finisce 2 a 2, col Perugia sotto di due reti a fine primo tempo. All'uscita dello stadio nel traffico ci fermiamo tutti a bere del prosecco offerto dai romanisti che se ne tornano con le pive nel sacco: mi prendono per perugino.

Tutto sommato torno anch'io torno a Roma senza troppi patemi: non vado di certo ad immaginarmi che per l'appunto la Roma arriverà Sesta e la Lazio riuscirà a recuperare ben 11 punti alla Juve di Ancelotti vincendo uno Scudetto all'ultima goccia (di pioggia), indovinate dove? A Perugia, goal di Calori mentre all'Olimpico la gente festeggiava incredula.

Il giorno di Maggio del 2000 che la Lazio vince lo Scudetto grazie a un exploit del Perugia di Mazzone, decido che è l'ora di farla finita. L'Umbria, che già non m'era simpatica, all'improvviso diventa un simbolo: il simbolo di tutto ciò che mi è avverso e che il destino ripetutamente vuol portarmi al cospetto.

Mi nego come non mai: il primo anno va male (torno per poco), dal secondo in Umbria di me non c'è più traccia: abituo tutti i parenti a fare a meno della mia presenza, nel frattempo mi laureo, faccio esperienze in Inghilterra, Stati Uniti e nel resto d'Europa.

Decido di tornare in questi anni qui, dopo tanti viaggi, tante situazioni vissute con gioia. Cosa scopro dell'Umbria in questi anni? Di preciso di che razza di regione si tratta? Chi sono davvero gli umbri, cosa fanno, come vivono, cosa sognano, come si comportano davanti al futuro?

Mi faccio aiutare da Lorenzo, mio cugino che incontrai per la prima volta la sua seconda settimana di vita: io ero un bambino, lui, minuscolo, urlava a squarciagola. Oggi è un ragazzotto forzuto, che dall'Umbria ha preso le cose che gli erano congeniali: a pesca col padre per i numerosi corsi d'acqua, integrato nel sottobosco di provincia tanto da muoversi in macchina su e giù tra Perugia e il paese. È fidanzato con una ragazza genuina con qualche frizzo sofisticato: carnagione chiara, capelli corti e lisci, riga da un lato a mo' di frangetta.

Sono loro a portarmi in giro di notte a Perugia, a scoprire una città che offre mura esterne che t'invitano a salire finché una movida studentesca non t'investe con le sirene, i clacson, la musica dagli altoparlanti. E i pub, i punti d'incontro, ragazzi sdraiati a terra o sulle scale. Si parla, si guarda, si dà il via libera alla curiosità. Si sente qualche accento americano, di ragazzi venuti qui a sfogare la follia dei vent'anni in un ambiente tutto sommato protetto. Non mi sorprende affatto che si trovino perfettamente a proprio agio: un posto affollato con la campagna e le case delle famiglie bene è l'ideale per gli americani. È l'Umbria ma potrebbe essere lo Utah, l'Iowa o il Wisconsin.

Magari si trovava a proprio agio anche Amanda Knox il cui nome sembra rimbombare da ogni lato degli edifici impastati nella notte. Lei bellissima, ambigua, fatale, lui (Raffaele Sollecito) innamorato e manovrabile. Me l'immagino insieme, dopo che Meredith era già stata a uccisa, a farsi una promessa: "sì, io non ti lascerò sola. Se ti danno la colpa, allora me la prenderò anch'io. Perché per te morirei Amanda!". Quanti italiani di provincia ho conosciuto che hanno perso la testa per una straniera? Una mandria di pecore allevate in solitudine e masturbazione. Gli occhi di Amanda, come quelli di ogni studentessa che viene da fuori, sono il fuoco della passione in un mondo di rilassanti distese di viti e girasoli.

La natura che ci riporta al paese di nonno sembra aver sotterrato trame di Aghata Christie: al posto del maggiordomo c'è il locandiere. Il verde delle foglie di tanto in tanto prende le tinte del sangue. Pensandoci bene per uno scrittore locale l'Umbria potrebbe essere ciò che il Maine (Castle Rock) è per Stephen King.

Non è un caso che uno dei prodotti indie gore migliori mai prodotti sia venuto proprio da queste parti: Grezzo 2 di Nic Piro (uno che usa i motori grafici di giochi metà anni '90 per reinterpretare le trame fantascientifiche in chiave trash splatter) è stato un successo mondiale. Puoi uccidere Emilio Fede e darti le martellate sui coglioni, giocare a Super Mario in 3D e andare a Umbria Jazz per sparare a Vasco Rossi, te la vedi con Matteo Montesi (altro provinciale di successo, però marchigiano) insieme al fedele Spara-Ratzinger (mai la figura di un Papa è stata usata in modo blasfemo e altrettanto funzionale).

Per il resto, se le studentesse, le trame horror e i videogiochi non v'interessano, c'è sempre qualcosa con cui bucarsi. Torno a casa, faccio una rapida ricerca e scopro che non esiste solo l'Umbria dei nonni, delle case in campagna, delle locande stellate dove ciccioni con abbigliamento folk ti offrono carni di prima qualità. Non c'è solo l'italianità provinciale che beve il caffè e il Limoncello e gode in silenzio restando anche un po' fuori dal mondo. C'è anche la parte oscura.

Perugia è la capitale dell'eroina. Il consumo supera abbondantemente quello degli altri capoluoghi regionali. Quindi il malessere c'è e non riguarda solo me. Quasi mi consola, mentre prendo il treno verso Roma e domando tante cose a non so chi, forse a me stesso, forse ai due-tre ragazzi un po' sbandati che fanno casino andando su e giù per il vagone: augurano buon Ferragosto a tutti, col sorriso beffardo ben nascosto sotto i baffi che non hanno.

Non avessi avuto i nonni di queste parti, se questa regione non l'avessi dovuta subire, se fossi stato più sereno, cosa ne penserei davvero? Mi piacerebbe? Sarebbe diverso?

Non lo so, a me la campagna non piace in Norvegia, come in Polonia, come negli Stati Uniti (e i problemi che ne sono scaturiti lo confermano): io non sono fatto per la provincia. Non ne condivido i valori, lo stile di vita, il modo in cui le persone si conoscono, si aiutano e si rispettano.

E allora, infine, la questione che davvero prevale su tutte è legata a mio nonno. Durante il nostro passeggio a Perugia, Lorenzo mi racconta anche dei suoi problemi di comunicazione con lui. Questo lo vorrebbe sempre in paese con sé, preoccupato di tutti i chilometri che di notte Lorenzo percorre per andare dalla ragazza e a Perugia. Racconta anche di me, di certe idee totalmente errate che egli nel tempo ha coltivato.

Pensa che io in Umbria non ci voglia andare per antipatia nei suoi riguardi. Pensa che mi stia sul cazzo, che segretamente lo odi. Altrimenti 'perché Valerio non vuole venire?', gli chiese direttamente una volta. Questa domanda ha una base tanto semplice nella natura quanto sofisticata nell'analisi. Solo in un modo può essere spiegata: per la generazione di mio nonno stare tutti riuniti in famiglia nel paese natale rappresenta il punto massimo di soddisfazione. Non ci sarà mai niente di più importante per lui, niente che possa mettere anche solo in dubbio la voglia di tenersi stretti attorno a sé i membri del branco.

I nipoti ideali dei miei nonni hanno quel conservatorismo genuino della gente della provincia cattolica. Ragazzi impettiti, con la cravatta la domenica e i capelli corti. Gente che crede nei valori e nella forza del lavoro e della semplicità. Nel ridere, nello scherzare, nell'aiutare il "prossimo proprio" che di fatto è il singolo membro della parentela. Per loro l'edonismo e "lo stare con gli altri" trovano il massimo splendore in quelle dinamiche.

Invece hanno avuto questo nipote (il primo, il più grande) sempre un po' autunnale, malinconico, noir, in perenne viaggio da Ovest a Est, superando frontiere territoriali e della mente. Uno che crede nel valore del viaggio, della scoperta dell'altro e dell'emozione chiusa nell'intimità. No, questo nipote non odia i nonni, ma odia le dinamiche che si sono create in questo contesto. Un nipote che avrebbe voluto altri rapporti, un'altra coscienza da parte di tutti.

D'altronde cosa ci si poteva aspettare da una persona che a 6 anni si trovò col cuore aperto, all'inizio di un percorso ospedaliero che nel bene o nel male non l'abbandonerà mai? Che si rivedrà nei film, nei libri, nelle forme d'espressione per rafforzare la propria personalità e superare le barriere, che siano di un ospedale o di una villetta in Umbria o di un'altra situazione spiacevole. Che userà la cultura alternativa come coordinate del proprio stare al mondo. Un adolescente del genere a 14 anni vuole la vita, la velocità, la città, Londra. Non il paesino dell'Umbria.

Possibile che mio nonno (che pure in vita è stato persona astuta assai) non riesca a capirlo?

Possibile.


VP