Per chi ama la letteratura, scrivere racconti, essere cittadini del mondo e riflettere sulla Settima Arte

domenica 17 novembre 2019

WHITE DI BRET EASTON ELLIS, L'INSOFFERENZA PER IL NEMICO COME PARALISI DELL'ARTE (17/11/2019)

Quando ho letto American Psycho avevo 16 anni, ero in vacanza al mare e trovai una vecchia edizione Bompiani (da due decenni invece edito da Einaudi come tutti i libri dell'autore californiano) in uno scaffale di una libreria riservato alla giallistica. Non immaginavo allora che quel romanzo fosse molto più di un giallo o un thriller o un horror mascherato da thriller (che forse era proprio ciò che cercavo in quel momento per allietare le giornate estive), né che lo stile di scrittura marchio di fabbrica del Brat Pack sarebbe stato così determinante nella costruzione del mio di stile. Bret Easton Ellis sarebbe diventato in pochissimo tempo l'unico autore di cui ho letto veramente tutto, molto più di Stephen King che a un certo punto lasciai andare per la sua strada, con la speranza che tanti altri ragazzi potessero usufruire della magia delle pagine tradotte dal compianto Tullio Dobner (il traduttore di King fino alla morte nel novembre 2018) per Sperling & Kupfer.

Perché rimasi così colpito da un autore di una generazione abbondante più vecchia della mia è presto detto: all'epoca iniziavo davvero i miei rapporti contraddittori con gli ambienti romani più o meno borghesi, con le sue ritualità e il culto dell'apparire. Romanzi come per l'appunto American Psycho o ancor di più Less Than Zero o The Rules Of Attraction (che parlavano di quasi miei coetanei, appena 3-4 anni più vecchi, però catturati nel decennio precedente a quello della mia di adolescenza) portavano le dinamiche che percepivo a Roma ad un livello di freddezza, violenza e morbosità che solo un paese come gli Stati Uniti poteva partorire. C'è stato un momento in cui davvero, nella mia ingenuità, pensavo di scimmiottare gli yuppies di Manhattan o gli studenti universitari californiani degli anni '80, un po' per dare una sorta di artisticità capitalista dall'acceleratore perennemente schiacciato ai giri pariolini dell'epoca.

Non è un caso che a 20 anni nei miei vagabondaggi negli USA sia stato di istanza principalmente a Los Angeles (dove Bret Easton Ellis è nato e Less Than Zero era ambientato) e New York (dove Ellis si è affermato all'età di 21 anni e partorì l'odissea del killer incravattato Patrick Bateman). E forse non è neanche un caso che da quei vagabondaggi sia tornato a casa parzialmente deluso: lo stile di vita che avevo visto in America, soprattutto in California, era completamente diverso rispetto a quello che da lettore europeo ricostruivo a somiglianza di ciò che vivevo attorno a me, per quanto nel film tratto da The Rules Of Attraction, firmato Roger Avary (quello del tarantiniano Killing Zoe, 1994), in un flashback di un superviaggio in Europa (il classico Eurotrip del post diploma alla high school) uno dei giovani bellimbusti diceva che Roma "è come Los Angeles... ma con le rovine". Ma quando mai! Tante cose che vidi a L.A. furono del tutto inaspettate e dovetti riscrivere dopo quel viaggio tutta la geografia di ciò che l'America era per me e anche rimettere in dubbio ciò che avevo fatto mio delle letture di Bret Easton Ellis.

Che è un autore americano in tutto e per tutto e, per di più, assolutamente americano-centrico. Una delle sensazioni sgradevoli che ho provato nella lettura di questo White, vero saggio personalizzato di 260 pagine appena uscito da Einaudi col titolo stupidamente italianizzato, è proprio il costante ricordo della mia ingenuità adolescenziale; il mio pensare che tra quel mondo raccontato fatto di abiti firmati, feste esclusive, ragazze bellissime e ricche e che si danno facilmente con l'aiuto di qualche polverina, e quello di Roma Nord che allora frequentavo potesse esserci una vicinanza o quantomeno una consapevolezza dell'esistenza. Bret Easton Ellis proprio in questo libro non romanzato, autoreferenziale ai massimi livelli e letteralmente fisso nella propria bolla che va da L.A. a New York come se il resto del pianeta Terra non esistesse, tra le tante cose trattate rivendica il suo diritto alla specificità e all'egocentrismo, sia come individuo, sia come omosessuale distante da una dimensione comunitaria dell'essere tale... e uno dei temi trattati verterà soprattutto sull'identità dei gay nei giorni del cosiddetto post-Impero, quello che va dall'attentato al World Trade Center alla vittoria di Donald Trump alle Presidenziali e alla conseguente rabbia degli ambienti di Sinistra liberale che sfocia nei comportamenti paradossalmente meno democratici e inclusivi.

Il libro semi-autobiografico (perché dal personale si va continuamente al generale e proprio l'invadenza dell'io, che è quasi una scelta ideologica dello scrittore, potrebbe essere una critica al tomo) parte dalla California degli anni '70, quando il padre di Ellis inizia il figlio alla visione cinematografica con una censura familiare molto blanda. Questa iniziazione lo lega all'horror e a tutto il cinema di genere di quel periodo; qui semina il germe della vocazione artistica. Nella libertà, secondo lo scrittore di gran lunga più vasta a quell'epoca rispetto ad oggi, di uscire da soli per strada (cosa che i genitori dei bambini di oggi vieterebbero) e sviluppare una tendenza autentica all'espressività portando in dono la scoperta delle proprie caratteristiche sessuali. Negli anni '70 i gay (quelli che oggi sarebbero dei "cuccioli di panda bisognosi di coccole") non venivano istituzionalmente e mediaticamente protetti e questo, secondo Ellis, temprava il carattere degli stessi davanti ai problemi della vita, cosa che manca alla "generazione inetta" (ovvero noi millennials, viziati dai genitori della generazione X dello scrittore - che invece se l'era vista con gli sfacciati baby boomers affamati di vita e gloria - e tutelati dal politicamente corretto e da una sensibilità formale affermatasi all'alba del XXI secolo) che, per quanto penalizzata dalle crisi economiche, dalla disoccupazione e dalla mancanza di opportunità nei settori terzi che fecero ricco lo stesso scrittore (lo ammette candidamente soprattutto in rapporto al compagno millennial con cui ha convissuto a Manhattan), ergerebbe il vittimismo come divinità a cui appellarsi in un quotidiano debole, banale e privo di fertilità estetica e artistica.

Lo stesso vittimismo che ha decretato vincitore alla Notte Degli Oscar un film sulla diversità da tutelare e vittima di un mondo feroce quale Moonlight (2016). Per Ellis l'epopea dell'omosessuale di colore raccontata in tre diversi momenti della sua vita, in ognuna delle quali incapperà in un'ingiustizia privata aderente ad una sociale, è un film retorico e che cattura lo spirito di un tempo, questo degli anni 2010, in cui l'industria hollywoodiana, ma mediatica in generale, combatte in prima linea una battaglia ideologica di inclusione totale delle minoranze. Una battaglia propria della Sinistra liberal progressista che infine rimarrà scottata dall'elezione di Donald Trump e dall'espansione dei movimenti sovranisti in tutto il mondo occidentale. Tralasciando che la statuetta per Miglior Film secondo Ellis sarebbe dovuta andare al musical La La Land (e io sarei anche d'accordo con lui) come omosessuale lui preferisce una roba tipo King Cobra (2016), una roba di genere sperimentale fatta di corpi nudi e vuoto estetico similare ai suoi romanzi che però catturerebbe la vera anima omosex. Senza implicazioni smaccatamente politiche e con l'elemento sessuale predominante che caratterizza lo slancio fisico, artistico in modo sensualmente fertile.

E poi si passa direttamente alla storia dei suoi romanzi, alle presentazioni di Less Than Zero, al primo soggiorno a Manhattan e alla genesi di American Psycho. Alla fatica, quasi disgusto, del venir risucchiato ad appena 21 anni in un ambiente fatto di soldi e ostentazione da cui nasce il suo massimo lavoro che diventerà prima un film diretto dalla femminista Mary Harron e con Christian Bale protagonista, poi un musical che da Londra andrà a Broadway per fallire, dopo un inizio promettente, con un passivo di decine di milioni di dollari. Tutto questo per parlare della vita e dei fallimenti che sarebbero l'anticamera dei successi che costellerebbero nel libero mondo le vite per l'appunto di quelli di successo.

Il mondo liberal democratico sembra ripudiare l'insuccesso e tramite lo sviluppo dei social network ha trovato il modo di sviluppare un apparato mediatico per far sì che determinati codici comportamentali, strettissimi, vincolanti e artisticamente castranti, venissero messi a regime per tutelare le fasce deboli della popolazione dai linguaggi istintivi e spesso scorretti. Ne fanno le spese Charlie Sheen, alcolista, sessuomane, sfacciato, e Kanye West, peraltro sostenitore di Trump e del "make American great again" mostrato con tanto di cappellino.

A tal proposito, Bret Easton Ellis giura di non aver votato nessuno alle presidenziali del 2016 e dell'aver cercato in tutti i modi di mantenere un'equidistanza tra le parti, ritrovandosi a frequentare sia a Los Angeles che a New York amici, conoscenti, partner lavorativi, editor di estrazione sia democratica che repubblicana. L'avvento e l'uso (inizialmente più libero e istintivo, poi nervoso dalle possibili ripercussioni) di Twitter e le esperienze di podcast in cui parlare con gli ospiti di tutto, sono il cuore della seconda parte del libro, che ha a che vedere con l'insofferenza violentissima da parte del mondo progressista liberale verso la diversità di pensiero e di comportamento (che spesso viene dalle Destre, dall'alt right e dai tradizionalismi che, come scrive apertamente l'autore, non credono nella possibilità d'incontro tra le diverse tribù che compongono l'umanità).

L'elezione di Trump in America, un po' come il salvinismo da noi o l'exploit di Marine LePen in Francia, è stato il vaso di Pandora che nascondeva una rabbia condita di disprezzo da parte dell'élite culturale e industriale del paese. Ellis ne è stato vittima più volte, sia quando metteva in dubbio su Twitter il genio letterario di David Foster Wallace, sia quando esaltava Kanye West che istintivamente faceva endorsement pro-Trump senza una ragione razionale precisa che non fosse montare l'hype verso se stesso. Vecchi amici e amiche si sono allontanati da lui, compagni di discussioni di una vita hanno iniziato ad avere un comportamento assolutamente aggressivo (addirittura in una chiacchierata davanti ad un drink in uno dei posti più costosi di L.A. uno di questi gli dice che "il voto dovrebbe essere appannaggio solo di quelli di Los Angeles e New York" ovvero le città più democratiche), ogni tweet o dichiarazione pubblica deve essere filtrata da un politicamente corretto che tutelerebbe tutte le categorie limitando di gran lunga la libertà d'espressione. Il compagno millennial augura la morte a Trump e ai suoi sostenitori, tutti sognano l'impeachment per sovvertire in modo forzoso l'andamento delle elezioni.

Questo, insieme ad un racconto di come fu per Ellis stare a New York durante l'11 settembre, è il vero cuore del libro, il motivo per cui White meriterebbe di essere letto, qualsiasi sia la propria indole politica o ideologica. Nessun libro ha mai affrontato un tema così attuale quasi storicizzandolo al presente; c'è solo una cosa che manca incredibilmente e che mi aspettavo l'autore trattasse: lo scandalo sessuale di Harvey Weinstein con il boicottaggio intero dell'industria hollywoodiana verso uno dei suoi Re fino ad allora indiscussi. Il pensiero dello scrittore lo potremmo tranquillamente immaginare dal suo atteggiamento verso il caso Trump. "Come è possibile che l'elezione di un Presidente abbia generato tutto questo astio?" si chiede Bret Easton Ellis.

Quello che viene da chiedersi invece è dove fosse Ellis, nei suoi fantasticati anni '70 e '80, quando in piena guerra fredda venivano criticati apertamente Nixon e Reagan e ancor prima l'America intera fu terreno di scontri contro la guerra in Vietnam e di terrorismo legato all'ideologia di cui parlò anche quel testo fondamentale che era Pastorale Americana di Philip Roth. Nel Novecento gli scontri politico-ideologici seminavano morti: in Europa ci furono il caso Aldo Moro e la banda Baader Meinhoff, tutto il 1977 fu un coacervo di tensioni politiche che portarono ad una strage di ragazzi da entrambi gli schieramenti.

Per quanto le parole e le insofferenze verso gli atteggiamenti conservatori o razzisti oggi siano portate all'estremo e allo sfogo perenne, non risulta che ci sia stato un attentato verso Donald Trump (per quanto Robert De Niro voglia prenderlo a cazzotti) o un agente di Hollywood abbia fatto strage di bifolchi del Connecticut con il cappellino con scritto "make America great again". Al massimo qualche personaggio pubblico ha dovuto scusarsi o ha perso soldi o progetti, scaricato dalle majors preoccupate al mantenimento di un target commerciale (ma quello è un problema del neo Capitalismo che Ellis, che giudica ad esempio le politiche sociali di Bernie Sanders deliranti, rifiuta di mettere in discussione). Magari ci saranno stati dei messicani alla frontiera respinti verso le loro vite disgraziate in modo più plateale, per quanto questo avvenisse anche sotto Obama e il resto dei democratici (Ellis ci tiene a ricordarlo).

E proprio questo è il nodo della faccenda: qual è l'idea di mondo che Bret Easton Ellis (fantasie su Richard Gere e American Gigolo o Tom Cruise, incontrato da Patrick Bateman negli anni '80 in ascensore, a parte) veicola forse anche involontariamente in White?

Ellis è un appartenente di una generazione fortunata e che poteva aspirare ad un guadagno individuale garantito da un sistema che ancora prevedeva una crescita economica a lungo raggio. Il suo ideale è un mondo di gente che guarda e sviluppa essenzialmente i propri interessi in modo manicheo, affidandosi a un sistema che di inerzia comunque scioglierà qualsiasi contraddizione sociale. Un americano bianco non deve pensare a quelli di "Black lives matter", così come il nero Kanye West fa bene a dire le prime cose che gli vengono in mente anche se sconclusionate e irresponsabili proprio perché autentiche e spiazzanti in quanto tali. Si lamenta dell'esclusività di chi si professerebbe inclusivo, ma il suo immaginario è assolutamente esclusivo. Ha la stessa onestà intellettuale di chi pensa che un ateo debba essere più comprensivo di un religioso ortodosso proprio in quanto non dogmatico (e quindi scoprirsi ai problemi e accettare la parzialità identitaria dell'altro). Un punto di vista strettamente personale e che mette in luce i limiti (forse volontariamente messi sul piatto) di se stesso, del suo nucleo bianco e benestante d'appartenenza e del mondo dei suoi personaggi e delle persone che gli gravitano attorno.

Tempo fa, comunque, una persona che mi aveva aggiunto su Facebook (uno che manco avevo mai conosciuto, chissà come cazzo gli è venuto in mente di cercarmi sui social), in replica a un mio post contro Salvini mi chiede: "sei forse di Sinistra?". Gli rispondo che sono radicale e puntualmente lui mi blocca... di quel tipo me ne feci una ragione, il caro Bret se ne faccia anche lui dei terribili liberal e di quelli che lui chiama "snowflake justice warriors" (le anime candide che lottano per la giustizia). L'unico modo per cambiare le cose è cambiare il sistema che per 30 anni ti ha garantito il successo planetario: vuoi provare?


VP