Nel bene e nel male il sottoscritto si compiace del dibattito creato, anche quando lo si accusa apertamente di pregiudizio e fuga dalla realtà vera. In questo senso l'articolo di Abitare A è una risposta giornalisticamente dettagliata ai miei j'accuse.
Allora non mi faccio sfuggire l'opportunità di ampliare il mio discorso, affinché le ambiguità non vengano chiarite il possibile, andando anche al di là di Berlino e degli ambienti che avevo descritto.
E se l'autore di Abitare A dedica il suo articolo a un fantomatico V., io non posso fare a meno di dedicare quest'altro a G.
Prendo il treno per Dresda dopo una notte in bianco e un pieno di vodka e birra. Non mi sento affatto bene e il colon spinge per prendere la roba e fare del bagno di questa vetusta ferraglia dell'era cecoslovacca la mia vera cabina. Invece stringo i denti, respingo i gas dentro la pancia e chiudo gli occhi: così rimango per mezzora abbondante in cui un paesaggio pianeggiante sfreccia oltre i vetri e riflette il chiarore dell'alba che m'illumina il viso che mano a mano viene investito di sudarella.

Loro non parlano più fino alla frontiera, quando all'entrata dell'ispettore tedesco tirano fuori i passaporti svedesi: "torniamo a casa" lo rassicurano. E allora i freddi occhi dell'ispettore, i suoi perfettamente nudi, passano su di me: mi lascio intimorire e quando i rumori in pancia si fanno ai limiti della sopportazione decido di non mostrare la Carta d'Identità italiana ma direttamente il Passaporto. "Dove vai?" mi chiede. "Dresda, Lipsia e Berlino" rispondo io. Mi dà il benvenuto, così, senza una parola di troppo: una cortesia affatto accogliente.
Rimetto i documenti a posto, stringo di nuovo i denti e mi conforta il pensiero che tra massimo due ore arriverò a destinazione. Inganno l'attesa provando a stupire i fidanzatini che proprio davanti a me hanno ricominciato a scambiarsi dolcezze; così rispolvero le tre-quattro frasi che so a memoria di svedese, miseri rimasugli di corsi di lingue successivi a un inter-rail con amici che m'aprì gli occhi sul mondo. Tempi in cui la mia massima aspirazione era quella di diventare un profugo in fuga dalle piaghe italiche corrotte verso i fatati lidi della Socialdemocrazia nordica: abbeverarmi di welfare (e di bionde).
Così, dopo i complimenti per il mio accento svensk impeccabile, scopro che i due vengono da un giro romantico nel Nord Italia: Padova, Verona, Venezia. Chiedo cosa ne pensino, delle città, dei monumenti, dell'Italia. Ne parlano gran bene, soprattutto di Verona (a loro dire la più bella). Poi è il turno mio: cosa penso della Svezia? Parlo di Stoccolma, Göteborg, Uppsala, la natura, gli gnomi; "solo non capisco perché la gente sia così fredda. Sono tutti così riservati, poco aperti, prendono sempre le distanze". Mi danno gran ragione e non si rendono minimamente conto che stia parlando di loro.

Invece, una volta sceso, mi ritrovo in stazione con tanti figli di Honecker che mi squadrano dalla testa ai piedi. Mi sento un'attrazione da circo e non capisco perché. In particolare una signora dall'espressione corrugata, l'esatto contrario della simpatia fattasi persona, mi si ferma vicino fissandomi nell'unico modo di cui probabilmente è capace: a dir poco ostile. Me la do a gambe levate, vado all'info desk della stazione e chiedo come arrivare alla città nuova: mi dicono che devo prendere un tram e m'assicuro di capire bene il posto in cui comprare il biglietto. Biglietto che costa uno sproposito, per tre (e sottolineo tre) minuti di viaggio. Ma le gambe mi tremano dalla stanchezza e non posso farne a meno: no, non posso incollarmi la valigia in più con gli insistenti occhi addosso dell'intera popolazione.
Abbasso la testa e sudo freddo. Prendo il tram, poi scendo e seguo le indicazioni per l'ostello. Non guardo niente, non mi fisso su nessun particolare: solo vie, nomi delle vie che rinomino a piacimento con cose tipo "stronzestrasse" o "vaffankulestrasse". Alla fine lo trovo, sgattaiolo dentro e mi trovo davanti un biondone fico dell'Ovest che m'accoglie con un falsissimo carico di simpatia: "tanto stanco?" mi dice in italiano e io mi mostro accondiscendente con un sorriso che maschera a dovere le sofferenze del primo impatto in terra germanica.
Il tizio mi elenca tutta una serie di confort inutili che mi fa pagare, inclusa una "stupidissima" (a detta sua) tassa che la regione della Sassonia riserva agli stranieri che vogliono visitarla. Insomma pago almeno una volta e mezzo in più del previsto: un'accoglienza coi fiocchi. Fortuna che me ne vado in stanza, mi faccio un bagno e mi butto sul letto. È fatta! È Fatta! Sono vivo e vegeto e ora mi riposo per bene.

Il primo reale contatto che ho con Dresda è davvero straniante: l'ostello è proprio al centro del quartiere della movida giovanile e l'aria è pregna di una sbronza collettiva da venerdì notte che rimbalza per tutte le pareti dei caratteristici e bassi edifici socialisti. Mi muovo in cerca di cibo e trovo una frutteria: mando giù due banane e due mele. Poi mi lascio affascinare da un via vai di strade dove la controcultura giovanile si esprime in tutta la sua forza a suon di graffiti. Tiro fuori la fotocamera e inizio a scattare, quando una voce terribile mi ferma all'istante. È la voce rauca di un Nazista, di un kapò, di un assassino, di uno che vuole farti del male: mi giro con cautela e scopro invece un ragazzino che sarà al massimo una matricola universitaria. Urla qualcosa verso di me e la strada è completamente vuota: 'sì, cazzo, ci sono solo io!'.
Io e lui ci guardiamo a vicenda e inizio a stringere i pugni: 'qui finisce male... e neanche è passato un giorno'. E mentre lo guardo noto una cosa che nella sua grossolanità non avevo ancora preso in considerazione: 'sto ragazzino c'aveva tre mollette sul naso. Intendo proprio le mollette per i panni. Sto per piegarmi in due dalle risate: il mix di terrore, tensione per un possibile scontro e senso del ridicolo è a dir poco potente. Questo pazzoide ubriaco continua a sbraitarmi le sue cazzate in tedesco e io rimango fermo. A momenti decido di rispondergli in romanesco: roba tipo "che cazzo vòi stronzo!". Poi però se ne torna da dove è venuto. 'Se ne è andato davvero? Magari chiama rinforzi. Qui è meglio che me la squaglio'. Invece faccio la cosa più imprudente: m'affaccio sulla strada da dove veniva e... 'non c'è più, sparito. Ma in che cazzo di posto sono arrivato? Che cazzo di posto è questo?'.
Dresda è un posto bellissimo: superata la città nuova e qualche fontana di recente fattura, ti lasci incantare da un centro storico che si apre in tutto il suo splendore. C'è il fiume, c'è il ponte e davanti ci sono le chiese che compongono lo skyline di questa città così particolare. È senz'ombra di dubbio la città ricostruita dopo i bombardamenti più bella che ci possa essere. La ricostruzione è stata impeccabile: il centro, le sue strade, lo Zwinger: il luogo perfetto per un soggiorno intimo con gli spazi verdi, l'architettura socialista, le atmosfere rarefatte e un certo romanticismo decadente.

Il piacere di camminare dopo aver mangiato un buonissimo pesce a ottimo prezzo in una catena di fastfood eccellente quale Nordsee (ecco cosa dovremmo importare in Italia, altro che KFC) presto lascia spazio alla voglia di rinfrescarsi dal caldo imperante. E cosa c'è di meglio che immergere i piedi nel fiume mentre l'intera città svetta maestosa davanti ai tuoi occhi? Non mi faccio pregare e rimango così, a camminare su e giù dentro al fiume, coi bambini che mi nuotano attorno.
Torno alla città nuova schivando orde di bambini con le maglie di Schweinsteiger, fresco Campione del Mondo, che emulano il loro eroe per i viali socialisti dritti e coreografici. Fino a 30 anni fa avrebbero osannato senz'altro atlete come Heidi Krieger imbottite di doping di cui in seguito pagheranno le conseguenze. Oppure avrebbero gioito del passaggio del turno di Coppa Uefa da parte di una squadra di nome Carl Zeiss Jena, che ribaltò un 3 a 0 fuori casa con 4 pappine davanti ad una folla festante a comando. Chi ne fu vittima? La risposta è molto ovvia.

Riprendo la giusta strada per l'ostello e mi fermo ad una gelateria: qui finalmente incontro la prima persona con cui riesco a scambiare due chiacchiere. Si tratta di un siciliano che sta insegnando ad una cameriera tedesca qualche frase ad effetto in italiano per attirare più clientela. Mi presento e ordino un cono da 2 euro: lui m'accoglie con la tipica cordialità sicula, un miraggio nel deserto. Mentre ci raccontiamo rispettive storie non posso fare a meno di chiedergli una cosa: "ma è un'impressione mia o qui la gente è strana?". "Eh qua la gente è assai... è incredibile quanto è strana". "Ah allora non è solo una roba mia!".

Mi faccio avanti e parliamo di come fosse la vita nei dintorni di Lipsia (è di lì) ai tempi del Muro, quando aveva all'incirca 16 anni: la gente era sospettosa e se c'avevi i grilli per la testa finivi dritto al Commissariato, ma c'era più unione, più normalità, più solidarietà. Ovviamente alle Elezioni vinceva sempre un Partito, anzi IL Partito, e non c'erano Santi. La ribellione non esisteva, tutti avevano un lavoro, tutti producevano, tutti consumavano il poco che lo Stato offriva.
Insomma la stessa storia trita e ritrita, ascoltata miliardi di volte nelle mie frequenti peregrinazioni nell'Est Europa. Ma c'è un "ma", c'è una differenza, una differenza enorme, anzi oserei dire abissale.

Persino nella Russia stessa, pur sacralizzando le proprie tradizioni in modo assai sopra le righe, la gente che non fa parte delle categorie più protette dai passati regimi (ovvero i contadini, certi operai) guarda il Comunismo con reale disprezzo, come una macchia indelebile della Storia da debellare anche nei modi più violenti. Tutto ciò porta gli stessi popoli, che fino a 30 anni fa si dichiaravano comunisti, ad applicare i dettami pratici del Comunismo all'esaltazione di un passato pre-Novecentesco. Un passato che prende il rosso e lo vira al nero.
Così l'Unione Europea, che recentemente ha inglobato una quantità esorbitante di paesi dell'ex Patto di Varsavia, oggi si risveglia scoprendo all'interno di se stessa realtà reazionarie che contraddicono ogni sentimento d'accoglienza della diversità e solidarietà per profughi e stranieri anche aventi diritto. Polonia, Ungheria, Romania: il razzismo è dietro l'angolo e proprio in quei posti dove meno te l'aspetteresti. Addirittura in Estonia (ma anche nel resto delle Repubbliche Baltiche) i russi sono ghettizzati e i simboli nazisti non sono banditi né dalla Costituzione né dalla coscienza popolare.
Nella Germania Orientale è diverso. I tedeschi non hanno sfogato il loro desiderio di libertà nell'acquisto e nel desiderio di materie di valore in grado di aumentare il livello di benessere individuale. Il Comunismo, pur con tutti i lati orribili della dittatura, testimoniati dai musei di Berlino e non solo, qui non è una macchia da togliere, un triste ricordo da dimenticare. Qui il Comunismo diventa una sorta di bandiera di una parte del carattere di questa popolazione: la rivendicazione di un'autenticità. I tedeschi orientali parlano del loro passato senza tristezze e voglie di dimenticare in fretta. Il Comunismo, Marx, Engels, Lenin, qui sono istituzioni della memoria: un universo a cui far riferimento in modo talvolta autoreferenziale.

L'interpretazione che ne consegue è la più socialdemocratica possibile. Le ragazze di Dresda non si truccano come le russe, non si vestono con marchi alla moda come russe, non portano le unghie lunghe come le russe, non vogliono essere femminili come le russe. E neanche simpatiche. Sono spigolose, problematiche, proprio come la receptionist che ora mi mette al corrente che in stanza ci sono anche due ragazze. 'Io con due ragazze? Wow!'.
In stanza però non trovo nessuno. Quindi vado in doccia, mi cambio, esco, mangio da Nordsee e vado in cerca di un posto per il sabato sera. Voglio una discoteca, voglio divertirmi.
Torno di corsa in città vecchia e vedo se si muove qualcosa. Niente, mortorio. Allora entro in un albergo di lusso e chiedo al receptionist dove si trovi la discoteca più "in" della città. Egli mi segna sulla mappa un posto vicino all'ostello. Quindi torno di gran carriera alla città nuova, trovo il posto ed entro senza problemi. Il locale è a tre piani: si balla techno, funk e revival. Scelgo il revival e ballo canzoni tedesche anni '80 di cui l'unica che conosco è 99 Luftballons. Cerco di conoscere qualcuno ma nessuno sembra accorgersi di me, né essere particolarmente predisposto a parlarmi.
Anzi una la trovo: nello spazio esterno, dove mestamente buttavo giù una birra, vengo avvicinato da una ragazza. Questa prima mi parla in tedesco, poi in inglese mi chiede se voglio qualcosa. "Cosa?" rispondo io. Mi passa in rassegna tutte le droghe di questo mondo, io ringrazio e lei se ne torna dagli amici. 'Bene, l'unica ragazza che mi rivolge la parola mi prende per drogato. Sono felice, davvero felice di essere qui'.
Passo mezzora abbondante a maledire la notte in cui progettai di passare un weekend a Dresda e in Germania in generale. Mi mancano Praga, le discoteche dell'Est Europa (quello vera), la Russia, le ragazze dell'Est (quelle vere), la gente che ti vuole conoscere e ti apre le porte di casa. Torno in ostello, dormo: in stanza ancora non c'è nessuno.
Mi sveglio che è domenica e sono in compagnia delle due ragazze. Il problema è che dormono e allora io esco. Non so che fare, ormai ho visitato tutto: inganno il tempo facendomi una foto insieme a Martin Lutero. E all'improvviso è magia: una folla oceanica di persone scortate dalla polizia taglia la strada da destra a sinistra. Alcuni sono anche in bicicletta e urlano: "Dynamo! Dynamo! Dynamo!". E allora mi accendo: 'come ho fatto a non pensarci! Eppure sono italiano: domenica uguale calcio'.
Mi alzo e mi unisco al gruppo, canto cori e chiedo in inglese come si comprino i biglietti per lo stadio. Non so neanche in che categoria stia la Dynamo Dresden, un poliziotto poi mi risponderà: Terza. Quindi vado a vedermi una partita di Serie C tedesca, in particolare contro il Preussen Münster, in un bell'impianto di proprietà con tutti i servizi e anche un pub di fronte alla Curva dei supporters locali.
La Dynamo Dresden ai tempi della DDR era un'ottima realtà. Vinse un Campionato nell'83 (un anno bello anche per noi) e nell'88 arrivò persino a buttare fuori dalla Coppa Uefa una squadra di ottimo livello. Indovinate chi? La risposta anche stavolta è molto ovvia.
Mi munisco di sciarpa e vado a prendermi una birra al pub. Qui c'è una tavola con tutti gli stemmi delle società se non amiche quantomeno simpatizzabili: c'era anche una squadra di Roma, non la mia (sob!). Vorrei chiedere in giro se va bene ai tifosi che un italiano stia nella Curva degli Ultras: la Dynamo Dresden è famosa negli ambienti del tifo per essere una realtà all'avanguardia. L'unico a rispondermi è un ragazzo con famiglia al seguito: "certo che puoi venire, basta che non dici che odi Dresda".

Al ritorno in ostello trovo finalmente le due ragazze: sono dell'Ovest, di Colonia, e viaggiano in macchina per tutta la ex DDR. Chiedo loro cosa ne pensino del posto e mi rispondono con molto entusiasmo.
La bionda delle due è timida e riservata, sa dire a malapena due parole d'inglese e un po' se ne vergogna. Mi parla benissimo di Berlino: secondo lei è una città sexy. Dopodiché a dominare la scena è completamente la castana: si chiama Giovanna, ha 23 anni e parla italiano. Ha studiato a Bologna. "Studiato cosa?". "Cinema!". "Davvero? Grande! Incontro una tedesca che sa di Cinema, questa sì che è una vera svolta!". Peccato che non abbia visto nessun film di Fassbinder, che Edgar Reitz non sappia davvero chi sia e che di Fritz Lang conosca solo Metropolis perché gliel'hanno fatto studiare. Dalle sue parole non esce un briciolo di passione.
"E cosa vorresti fare nella vita" domando io. "Vorrei entrare alla Biblioteca del Cinema, ma è difficile. Anzi di più: difficilissimo. Non lo so, non so davvero che fare". Continuiamo a parlare e Giovanna mi conferma cosa già penso di lei: dietro al suo sorriso e ai lineamenti netti e dolci si nasconde il dramma di una ventenne che non ha un vero scopo nella vita. Ciò non fa altro che alimentare una riflessione, una cosa notata in tutti i rapporti che ho avuto con ragazzi tedeschi.
L'idea che dall'esterno noi abbiamo della Germania è quello di un paese forte, d'acciaio, un paese coraggioso, senza paura, di gente in grado di coniugare inflessibilità e pragmatismo perseguendo ideali di produttività e progresso. Un sistema granitico di assistenza statale, una macchina perfetta.
La realtà però è molto diversa: i tedeschi sono gente con le idee veramente confuse. Non sanno cosa fare, non sanno che direzione prendere: si affidano alle piattaforme sociali per plasmare anche il proprio carattere e sempre dietro l'angolo c'è un rischio, quello di rimanere persone incomplete. Almeno in Italia o in Grecia o in tutti gli altri paesi affossati dalla crisi noi sappiamo ciò che vogliamo. Lo desideriamo, lo pretendiamo, contestiamo per le nostre mancanze. I tedeschi invece sembrano in balìa di desideri inespressi che non sanno mai che piega prendano. Hanno un controllo sulle componenti della loro vita assai meno rigoroso di ciò che la Germania lascia trasparire di fuori.
Vale davvero la pena farsi guidare da un paese di gente così?

Non c'è niente da fare: a Berlino dovevo venirci ai tempi del Muro, insieme a David Bowie o a Lindo Ferretti dei CCCP. Così quando vado al Museo della DDR volo con la fantasia guidando una finta Trabant (ancora oggi la macchina più rubata nella Germania dell'Est) con simulazione interna che ti catapulta direttamente nelle strade grigie dei tempi belli. Poi, sempre più vittima della nostalgia degli anni '80, non posso che accomodarmi al tavolo di Honecker e ordino al telefono di rimandare la Lazio in B.
Una sera io e il mio amico beviamo una birra per strada e lui mi indica la linea del Muro: "ti rendi conto di quanto territorio si sono impossessati i sovietici? Ti rendi conto? Era tutto loro, praticamente quasi tutto loro". E ripenso a Dresda, al tizio con le mollette al naso, alla tipa che voleva vendermi la roba in discoteca, alla receptionist coi capelli corti, alla mamma col bambino alle giostre di cemento e rispondo: "sì, mi rendo conto".
Non solo del territorio.
VP