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martedì 23 settembre 2014

BERLINO - IL BUNKER DEI "DIVERSI" (23/09/2014)

Questo articolo è dedicato gli amici che m'hanno ospitato e che da anni hanno deciso, come molti altri ragazzi di tutto il mondo, di passare i momenti di gioia e libertà, nonché di lavoro, nella capitale tedesca.

Ed è anche dedicato a tutti gli amanti di Berlino che forse saranno irritati dai contenuti e dalla forma del mio report, esattamente come lo sarei io davanti a una critica alla mia Londra o a certe atmosfere particolari dell'Est Europa che ho a cuore.

Questo articolo è indirizzato principalmente a loro, in quanto VP-Italia, nella persona del sottoscritto, promuove lo scambio di opinioni, anche forti e contrastanti, per l'innata propensione alla cultura e al dibattito. Non me ne vogliate male, Berlino l'ho provata e vi prometto che cercherò di non tornarci. 

L'amore per un posto è una cosa molto bella e, anche se in questo caso non v'ho capito, lo rispetto tantissimo.


Prima d'arrivare a Berlino, le immagini che mi passavano in testa erano quelle di un celebratissimo, trasognato film di Wim Wenders, i documentari sul Muro, un capolavoro col grande e sfortunato Ulrich Mühe nei panni del capitano della Stasi che spiava gli intellettuali. C'era tanta Italia, quella canora, quella che tentava di agganciarsi al periodo berlinese di David Bowie con suggestioni postmoderne, uno stile che andasse oltre l'italianità, che portasse persino la lingua italiana a essere altro da sé stessa, le ambizioni più audaci e irrimediabilmente impossibili. E invece a Berlino (Ovest) sono nati i CCCP dello stonato punkettone Lindo Ferretti, oggi ripulito con aurea cattolico/liberale, i Matia Bazar c'hanno sfornato uno degli album più europei della musica italiana, cambiando stile e ponendosi come altro da ciò che erano stati fino ad allora, la cantante Milva (amatissima in Germania) raccontava con le parole di Battiato di quanto facesse freddo in quella casa verso la frontiera. Ogni cosa che passava a Berlino diventava postmoderna, come se quel muro ancora eretto fosse una calamita, un centro di gravità permanente dove ogni pellegrino riceveva l'illuminazione determinante a scalfire per sempre la propria personalità e il modo di vedere e vivere il mondo. Cantava Garbo, un interessante, stiloso e smaccatamente "italiano", emulo di Bowie negli anni '80: "soltanto questo muro non ha freddo qui".

Io a Berlino ci sono arrivato a 30 anni, con un treno da Lipsia; perché prima di vedere il conosciuto dalla grande massa preferisco sempre prima addentrarmi nel particolare, l'ex DDR meno influenzata da turismo e movida. Ma quello è un altro discorso, che verrà affrontato inevitabilmente in altre sedi. Ci sono arrivato a 30 anni dopo aver ascoltato di tutto su questa città così amata dai miei coetanei: tutto, tutto! Da quando sono diventato maggiorenne sono due i posti che hanno accompagnato i racconti di scorribande e fughe dal grigiore italico da parte di coloro che incontravo in quelle feste dove magari potessero venir fuori discussioni altre da "anvedi che fica quella!, a proposito hai visto ieri che goal Totti?": una è Berlino, l'altra è Barcellona. E da entrambe le mete mi sono sentito in dovere di tenermi alla larga, almeno finché i 20 anni che mi sorreggevano richiedevano libertà, divertimento, diversità da se stessi e universi particolari. Per la prima c'è sempre una Londra in grado di offrirti ogni velleità, a farti sentire un po' al centro del mondo e lontano da quella periferia esistenziale che è l'Italia; per il divertimento, beh, se non vuoi rimanere a Londra ci sta sempre una Malta, una Praga o una Los Angeles in cui sfoderare il tuo look più glamour e fare il bello in discoteca con qualche simpatica cretinetta; per la diversità c'è il Nord Europa, ma perché limitarsi alla Germania, la Scandinavia è l'ideale per un confronto ancora più acceso col nordico; infine se proprio vuoi vedere e capire cos'era il Comunismo, saggiare le atmosfere decadenti e surreali dell'edilizia socialista, la paura e la depressione nelle strade, perché rimanere nella Mitteleuropa quando a tre ore d'aereo ci sta un'ex Unione Sovietica sterminata, in cui trovare pane per i propri feticci?

E in questo senso il mio arrivo a Berlino non è più tanto accompagnato dal Cielo di Wenders su di esso, dalle epopee di Döblin e Fassbinder che raccontavano la Repubblica di Weimar o dalla voce incredibile di Antonella Ruggero che "coverava" la Dietrich. Ma da un aspro confronto con la mia generazione che ha decretato Berlino città della cultura, delle tendenze, della creazione. Una città con più turisti di Roma, quasi tutti giovanissimi, e questo fa riflettere, deve far riflettere tutti, perché se si visitano entrambi i centri (ammesso che a Berlino esista un "centro"), anche il berlinese più irriducibile non può ritenere ammissibile che la Storia e il Mito di Roma vengano spodestati dai vezzi di una città bombardata, distrutta, ricreata, divisa, liberata, trasformata in un party place per alternativi, esempio di integrazione multirazziale in barba al Nazismo. Un posto che ha scelto l'elettronica d'avanguardia come colonna sonora del suo ritmo metropolitano e, per quanto anche il sottoscritto sia un grande amante di questo genere, ciò non giustifica la vittoria di Berlino su Roma, che è la vittoria della ricerca di qualcosa sulla voglia di bellezza. Ricerca di cosa? Proviamo a capirlo.

Volenti o nolenti Berlino è la Storia del Novecento a da questo non si scappa, tanti tipi diversi di città in un unico spazio, ha visto la creazione di Stati dentro e fuori di essa, dalla Prussia ai giorni nostri. Gli strascichi sono ancora evidenti e non parlo solo dei pezzettini di muro decorati con simboli della pace e prese in giro alle dittature, ma ad esempio del Memoriale Ai Caduti Sovietici, che sfoggia carri armati e simboli comunisti nella via che passa in mezzo al parco di Tiergarten e che collega la Porta Di Brandeburgo alla Colonna Della Vittoria. Questa via fino a 25 anni fa era posizionata nella parte ovest, immediatamente a ridosso del Muro, e l'orgoglio degli Alleati per aver sconfitto Hitler non ha impedito la costruzione di un mostro sovietico proprio mentre oltre quella porta, da Unter Den Linden in poi, il Comunismo si prendeva una parte importante della città, dividendo persone e famiglie. Ma si sa: il nemico del mio nemico è mio amico e a ricordare la crudeltà del nemico "nuovo", ovvero quello che prima era un alleato, ecco una sfilza di musei ed ex prigioni che raccontano i dettagli del periodo con tono curioso ai limiti della morbosità.

Ora capirete che una città del genere non può non coltivare dentro di sé, nel suo stile, nelle sue atmosfere, un senso di colpa e dei complessi che la rendono distintiva. Questi complessi sembrano riversarsi dai palazzoni socialisti ripuliti sulla vita delle persone, la convinzione a livello collettivo che Berlino debba essere una città popolata di poveri e diversi, che oggi, nell'ex capitale del Terzo Reich, trovano un rifugio dalle convenzioni borghesi del neocapitalismo. Così Berlino si nutre di marginalità, come East London o come provano a fare oggi le vecchie borgate romane (Pigneto, Quadraro) per dare una scossa al degrado e all'abbandono delle loro strade. Ma c'è un ma, una differenza sostanziale, dettagli che rendono il nostro soggiorno berlinese meno godibile di quello che sarebbe potuto essere: ovvero il modo in cui la gente vive questa diversità, questa marginalità. questo sentimento alternativo. E non posso che scendere sul personale.

Chiunque mi conosca sa che non sono mai stato alternativo, o meglio non alternativo come la maggior parte dei giovani pensa che si debba essere tali. Amo l'elettronica (e, diciamolo subito, quella di Berlino è favolosa), mi reputo un new waver, ascolto ogni giorno gruppi come i Joy Division o i Depeche Mode o i Deftones senza essere in vena di smalti neri sulle unghie o pitturarmi la faccia per sembrare un membro dei Kiss. Sono sempre stato un ragazzo vestito in giacca e camicia, perché così mi sono sempre trovato a mio agio, porto di solito i capelli lunghi, sembro il personaggio di un film francese degli anni '70 forse perché la mia sensibilità si è rivista nei tratti di Jean-Pierre Léaud, ma questo è un altro discorso.

Chi mi conosce sa anche che ho vissuto a Londra e non proprio in un quartiere "bianco" o benestante, non ero a Kensington, né a Notting Hill,, né tantomeno a Paddington. Bensì qualche anno fa mi avreste potuto trovare di notte a passeggiare da solo per Hackney Road, tra case popolari con cartelli "attenti ai ladri d'appartamenti!", passando per Whitechapel vicino alla dimora di Jack the Ripper. Vivevo in un quartiere povero, d'immigrazione nera e asiatica, con la puzza di kebab costante e tanto folklore popolare. Ed ero sempre in giacca, sempre io, talvolta con una bombetta in testa che faceva tanto ridere i colletti bianchi di Oxford Street ma che a Tower Hamlets è stata sempre rispettata e accolta, come me del resto.

A Londra ho passato il periodo più esaltante della mia vita, uscendo di casa con gente che a Roma probabilmente non frequenterei mai (bianchi, neri, bancari, banchieri, rapper, spacciatori, punk, dark). E lo sapete perché? Perché Londra è veramente la città della gioia dello stare insieme, la città dell'energia, del confronto tra diversi prodotti in un unico mercato, la città che seppur impregnata di valori aristocratici accoglie la diversità offrendole una collocazione in linea con le aspettative proprie e di chiunque sia pronto a riceverla.

Una delle mie più grandi amiche a Londra era francese, si chiamava Françoise, aveva i capelli rossi e corti a mo' di crestina, i jeans sempre rigorosamente strappati e si faceva di MDMA. Non c'è mai stata differenza tra noi, seppur mi definisse un "classy boy", azzarderei a dire che ci volessimo quasi bene e io ero sempre la prima persona nella sua lista quando davano un Francis Bacon alla Tate Britain. Tutto questo a Berlino non succede.

Perché la creatività alternativa di Berlino non è gioiosa e basata sul godimento, sull'assaggio di più fattori. La creatività di Berlino è nervosa, basata sullo sfogo di pulsioni, una continua esibizione d'atteggiamenti viscerali, sfogati come i bassi sintetici dell'elettronica che l'accompagna. Se avete rabbie inespresse, dimostrate dagli sguardi che trovi in metropolitana (mai violenti, ma mai del tutto amichevoli), siete i benvenuti. Altrimenti, se siete gente un po' tipo me, preparatevi ad essere a vostra volta marginalizzati dalla mondanità fricchettona che Berlino ha creato per tutelare i suoi "diversi"... anche da voi.

È un sabato iniziato con una festa a casa dei miei amici. Presto prendiamo il tram che ci porta a Warschauer Straße per finire poi in una discoteca dove un giamaicano coi dread verdi si sposa con una serie di persone volutamente trascurate e in fila. Entrano tutti tranne il sottoscritto, che viene discriminato dalla soddisfazione del buttafuori nel rimbalzare l'unico in giacca e camicia, millantando per l'occasione una frase che non potrei dire neanche nel paese più odioso del mondo: ovvero di essere orgoglioso di non parlare la lingua del posto. I miei amici credono al buttafuori e non ho voglia di alimentare tensioni, assecondo la situazione, e mi rifugio nel bellissimo Watergate, uno splendido club delle vicinanze dove mi fanno subito entrare e in cui mi godo 2 ore di electro-minimal con notevole vista terrazzata sulla Sprea. Ci rincontriamo tutti quanti per il matinée al Berghain e questo posto merita un capitolo a parte.

Il Berghain è un edificio industriale a più piani, grigio e spartano, che nel tempo si è guadagnato una reputazione notevole, per molti è la discoteca più bella e famosa del mondo. Apre i battenti solo nel weekend ma non si ferma fino a lunedì, orario continuato. La fila all'entrata è quanto di più scoraggiante ci possa essere e finisce ai margini della strada non asfaltata che porta al palazzo. La selezione è DURISSIMA, per molti incomprensibile, talvolta personale: è lo Studio 54 dei gay e dei punk, solo che, al posto di Steve Rubell che al tempo ti controllava lo smoking, o il fisico se eri un bel ragazzo, alla porta trovi un essere tribale e leggendario, una sorta di Druido dal volto cattivo e ribelle: è Sven Marquartd, il personaggio più importante di Berlino. Questo ti squadra bene e se non gli vai a genio ci mette un secondo a scartarti anche dopo 2 ore e mezza di fila.

Volete sapere cosa succede a noi? È molto facile indovinare, ma ve lo dico lo stesso. Siamo rimasti in 3, io, un mio amico e un suo amico omosessuale: loro si presentano mano nella mano, da perfetti innamorati, con dietro il sottoscritto in giacca e camicia. Lo scagnozzo di Marquartd chiede a loro in tedesco se sono in 2 o se ci sono altri: il mio amico include anche me, con qualche titubanza del suo fidanzato, e finisce male. Loro si mettono le mani nei capelli, addirittura l'altro ragazzo fa sempre il gesto di mangiarsi le mani, io sono stretto tra l'insofferenza silenziosa per questo posto così ostile e l'imbarazzo d'aver precluso ai miei amici l'entrata nel miglior locale del mondo.

Non visitare il Berghain per me non è stato solo un peccato, ma un dolore che m'accompagna fino a oggi: non per la gente, non per il divertimento, anche perché diciamocela tutta io con quell'ambiente c'entro zero. Ma per la musica: da quel portone d'ingresso non veniva solo qualcosa di bello, ma la migliore elettronica possibile. Torno a casa sconsolato e inizio seriamente a desiderare di tornare a Roma il prima possibile o di scappare in qualsiasi posto dove la gente non sia vestita in quel modo. La moda di Berlino è un pugno nell'occhio per ogni persona educata dal glamour leggero delle firme italiane: portano tutti quanti scarpe con la suola bassa che a vederle mi ritorna il dolore ai tendini e i pantaloni hanno questi maledettissimi orli alla caviglia stile "mi si è allagata casa".

Eppure non era iniziato così male il mio soggiorno berlinese. M'ero lasciato trasportare dall'istinto a Charlottenburg, nella parte ovest, dove alberga ancora il Castello barocco della Regina di Prussia Sophia Charlotte: un angolo di splendore nobiliare in cui gustarsi ceramiche pregiate e un giardino esterno dove le forme più soavi di Berlino (le uniche) ti circondano fino ad avvolgerti in un torpore di dolce benessere. E così ritrovi il Romanticismo teutonico, quelle atmosfere che ti proiettano nella fiaba di un passato remoto, quelle cose che colpiscono il cuore di un borghese che rivede nei valori nobiliari uno slancio alla bellezza e al miglioramento... in una città che oggi ripudia l'aristocrazia e il classismo.

I miei amici ancora non c'erano stati a Charlottenburg Schloss, quando per smaltire la sbornia abbiamo discusso sul posto e i suoi scenari. Loro Berlino la amano perché città alternativa, esempio vincente d'integrazione razziale. Sono infatuati dalla metro aperta tutta la notte, dalle bici e dalle piste ciclabili che collegano l'intera città: esempi di civiltà democratica, dicono. Io, che forse non sono democratico, che sicuramente non sono mai stato uno "di sinistra che prima ha votato Verdi, poi Arcobaleno, poi PD facendo girotondi e cenette al Pigneto", non riesco a capire quanto una vita e un posto possano considerarsi belli col contributo delle piste ciclabili. Determinante, poi, per loro è l'assenza parziale dei figli di papà della borghesia di Roma Nord, questa gente superficiale che evidentemente riesce a rovinare le esistenze degli alternativi romani con le loro cafonate. Gente che, pur avendola frequentata, mi è sempre sembrata innocua.

Sull'integrazione, poi, avrei seriamente qualcosa da ridire. I primi giorni a Berlino l'ho passati in un appartamento di Neukölln, un quadrante poco più a sud di Kreuzberg, quartiere vissuto quasi esclusivamente da turchi. Francamente non so valutare in pochi giorni il contributo di questi nella società tedesca, né il rapporto inter-etnico, né per me è stato un problema o una stranezza convivere con loro, visto che la Turchia è un posto meraviglioso e non veda l'ora di tornarci. Fatto sta che queste aree completamente conquistate dagli immigrati (con tanto di cartelli contro la discriminazione) sono state anche le prime a livello europeo a dare il via al fenomeno della gentrificazione.

In pratica prendi un'area da riqualificare o con un presente problematico, ne ripulisci le infrastrutture con conseguente aumento dei prezzi, delle tasse, degli affitti delle case. Ed eccoti gli studentelli di buone famiglie italiane, tedesche, francesi, scandinave, che si prendono pezzi di quartieri popolari, con la gente del posto che reclama di essere lasciata "in pace con i propri topi" quando non è costretta a lasciare tutto per spostarsi ancora di più all'esterno, nelle aree ancora degradate e problematiche. Insomma quello che a Roma è successo prima a Trastevere, poi a Testaccio, poi a San Lorenzo e ora al Pigneto. Dopo sarà la volta del Quadraro? Chissà, fatto sta che è una tendenza odiosa che certa borghesia progressista vuole vendere come integrazione riuscita. Così ecco che in metropolitana spuntano come funghi italiani con maglietta della salute e occhiali da nerd, gli Enrico Ghezzi dei poveri, in preda a quel fenomeno d'hipsteria che la gentrificazione inevitabilmente comporta. Tutti sono creativi, strani, speciali, ma sarà tutto vero o è un rimpiazzo temporaneo delle mode giovanili di qualche decennio fa?.

Ci rifletto a testa bassa mentre percorro tutta la Karl-Marx-Allee fino ad Alexanderplatz, questa prospettiva sovietica con le piastrelle del bagno a decorare i palazzi (cit. di un mio amico), in cui ogni tanto sulla pista ciclabile sfrecciano rastoni dai ciuffi fluo come silenziosi spettri nella notte. Il ronzio costante dei raggi delle ruote mi irrita abbinato alla calma piatta di questo agglomerato urbano. È tutto un po' come in Russia, ma mancano le belle ragazze coi tacchi alti, la musica trance che rimbomba da ogni macchina, la paura costante di un borseggiatore. Finisce persino a mancarti la milizia e l'inconfondibile puzza di topo morto degli interni dei palazzi. E penso che anche il degrado, la violenza e la paura hanno dei lati poetici. Già, quello che manca a Berlino. È come se da quella torre della televisione che t'accompagna in ogni momento venisse emanato un segnale in grado di anestetizzare gli animi per poi condurli a sfogarsi in discoteca.

Gli ultimi giorni li passo in ostello, i ragazzi hanno tutti i tratti alternativi tipici di chi va a Berlino, quei piercing messi là dove lo sguardo viene più scalfito (mi fanno impressione quelli con la borchia, anche più di una, sotto il labbro inferiore ricoperto di barba lunga). Chiedo loro se siano riusciti a entrare al Berghain, ma neanche sanno cosa sia. Mi chiedo come questo sia possibile per poi virare verso altri argomenti. Al Berghain ci ripasso un'ultima volta, per vedere se pure di pomeriggio la fila si mantiene mostruosa, senza l'intento di riprovarci; peraltro il buttafuori m'ha adocchiato, anche senza giacca e con una felpa bianca dell'Adidas: non è difficile, a parte i gay sono tutti vestiti di scuro. Mi lascio inebriare dai rintocchi dell'elettronica percepibili dall'esterno e mi posiziono, con tanto di birra in mano, a guardare la gente che prima o poi entrerà o se ne tornerà con le pive nel sacco. Cerco di indovinare vincitori e vinti e inaspettatamente capisco dalle scelte dei buttafuori su cosa davvero si basa la selezione al Berghain.

Se vivessi a Berlino e un mio amico mi venisse a trovare, direi a questo di portarsi da casa un vestiario per l'occasione, le cose più pacchiane che abbia nell'armadio, qualcosa anche d'imbarazzante. Gli spiegherei che il Berghain è un posto da vedere a tutti i costi e per questo bisogna essere più strambi ed estremi possibili senza che ciò vada a cozzare col proprio carattere. Marquartd e i suoi sicuramente non possono conoscere tutti i personaggi che gli si presentano alla porta, ma allo stesso tempo hanno sviluppato un sesto senso che gli permette di capire quando una persona finge. Anche perché di finti gay abbracciati ce ne sono una quantità sproporzionata e la loro falsità si percepisce lontana un miglio.

La fila del Berghain, quei vestiti, quei tacchi rotti, quelle scarpe aperte, quei piercing ostentati, quelle borchie, è la prima delle 2 immagini che Berlino mi restituisce su ciò che noi giovani siamo diventati. È un vero compendio delle debolezze della mia generazione. Una generazione vittima della crisi, delle elevate aspettative dei pochi che danno lavoro, della mancanza di denaro, del degrado come uno strapiombo nel quale è facile cadere. Ed ecco il vero motivo per cui Berlino viene visitata più di Roma, di Istanbul, di San Pietroburgo, delle città belle, belle davvero. Perché Berlino offre un rifugio a una gioventù sempre sull'orlo del baratro, a quei ragazzi che vivono il perfezionismo del sistema capitalista come un mettere con le spalle al muro i propri lati più reconditi. Dietro al Berghain c'è un parchetto, dove un gruppo di ragazze si confidano tra di loro, una ha gli occhi lucidi, reclamano rispetto e perciò lei si sporca il viso con un lucida labbra blu: vuole stupire, farsi notare. Ci guardiamo a vicenda mentre me ne sto andando ed è come se ci fossimo detti un segreto.

La seconda immagine arriva in extremis, l'ultima notte in cui decido che, sì, voglio divertirmi anch'io. Almeno una notte devo trovare un posto adatto a me e lo trovo: è il Tresor, nightclub a 2 piani, bellissimo. Clamorosamente mi fanno entrare subito, penso che in fondo la selezione non ci sia, ma subito dopo vedo fuori una ragazza anche ben vestita che viene rimbalzata. La musica è ottima, le pareti sono nere con dettagli fluorescenti, anche il bagno è un'installazione d'arte contemporanea, la birra e i drink costano un niente. Passo 20 minuti al bancone a parlare di sesso con un'australiana che poi mi racconta d'essere stata rifiutata da Marquartd: 'certo che bisogna essere proprio froci per non far entrare una così', pensavo. Poi lei se ne va, non aveva voglia e me l'ha detto chiaramente. Io mi sposto verso i divanetti e noto un paio di ragazze more, non tanto carine in realtà, che sprizzano italianità da tutti i pori. Mi faccio avanti e, proprio così, sono di Milano: me le immagino subito a fotografare qualche VIP di nascosto a via Montenapoleone e nel tentativo di superare la selezione all'Hollywood con Inzaghi e Vieri dentro. Mi siedo di fianco alla più slanciata, quella più propensa a parlarmi. Così alla mia domanda "cosa ti piace qui Berlino, perché ci vieni così spesso?" lei risponde: "perché qua, vedi - e mi mostra le scarpe basse - posso venire in discoteca anche con le Vans e non mettermi i tacchi". "E perché a Milano ti metti i tacchi?", chiedo ancora. "Be' perché a Milano devo avere i tacchi".

Proprio su ciò rifletto mentre aspetto sulla banchina della metro il treno che mi porta all'aeroporto. Sullo schermo passano news sull'epidemia di Ebola e credo che si tratti dell'Africa: in realtà c'era stato proprio la notte scorsa un caso della malattia che sta allarmando il mondo nientemeno che a Prenzlauer Berg, dove ho passato metà del soggiorno. In aeroporto una sfila di ragazzi italiani aspettano con me il volo per Roma, già si pensa al prossimo weekend lungo da passare a Berlino, i prossimi sfasci notturni da organizzare insieme. Li guardo attentamente e mi chiedo perché non abbia alcuna voglia di conoscerli, di parlarci insieme come accadde tante volte con altri connazionali nell'Est Europa o negli Stati Uniti. No, non voglio conoscere nessuno a Berlino e a Berlino nessuno vuole conoscere me.

Forse perché dopo Hitler e il Comunismo, c'è ancora un regime, una cosa da cui almeno io evado verso una dimensione di sogni, immagini e poesia. Ne scappo con tutto me stesso: la società e i suoi riflessi.


VP