Ed è anche dedicato a tutti gli amanti di Berlino che forse saranno irritati dai contenuti e dalla forma del mio report, esattamente come lo sarei io davanti a una critica alla mia Londra o a certe atmosfere particolari dell'Est Europa che ho a cuore.
Questo articolo è indirizzato principalmente a loro, in quanto VP-Italia, nella persona del sottoscritto, promuove lo scambio di opinioni, anche forti e contrastanti, per l'innata propensione alla cultura e al dibattito. Non me ne vogliate male, Berlino l'ho provata e vi prometto che cercherò di non tornarci.
L'amore per un posto è una cosa molto bella e, anche se in questo caso non v'ho capito, lo rispetto tantissimo.

Volenti o nolenti Berlino è la Storia del Novecento a da questo non si scappa, tanti tipi diversi di città in un unico spazio, ha visto la creazione di Stati dentro e fuori di essa, dalla Prussia ai giorni nostri. Gli strascichi sono ancora evidenti e non parlo solo dei pezzettini di muro decorati con simboli della pace e prese in giro alle dittature, ma ad esempio del Memoriale Ai Caduti Sovietici, che sfoggia carri armati e simboli comunisti nella via che passa in mezzo al parco di Tiergarten e che collega la Porta Di Brandeburgo alla Colonna Della Vittoria. Questa via fino a 25 anni fa era posizionata nella parte ovest, immediatamente a ridosso del Muro, e l'orgoglio degli Alleati per aver sconfitto Hitler non ha impedito la costruzione di un mostro sovietico proprio mentre oltre quella porta, da Unter Den Linden in poi, il Comunismo si prendeva una parte importante della città, dividendo persone e famiglie. Ma si sa: il nemico del mio nemico è mio amico e a ricordare la crudeltà del nemico "nuovo", ovvero quello che prima era un alleato, ecco una sfilza di musei ed ex prigioni che raccontano i dettagli del periodo con tono curioso ai limiti della morbosità.
Chiunque mi conosca sa che non sono mai stato alternativo, o meglio non alternativo come la maggior parte dei giovani pensa che si debba essere tali. Amo l'elettronica (e, diciamolo subito, quella di Berlino è favolosa), mi reputo un new waver, ascolto ogni giorno gruppi come i Joy Division o i Depeche Mode o i Deftones senza essere in vena di smalti neri sulle unghie o pitturarmi la faccia per sembrare un membro dei Kiss. Sono sempre stato un ragazzo vestito in giacca e camicia, perché così mi sono sempre trovato a mio agio, porto di solito i capelli lunghi, sembro il personaggio di un film francese degli anni '70 forse perché la mia sensibilità si è rivista nei tratti di Jean-Pierre Léaud, ma questo è un altro discorso.
Chi mi conosce sa anche che ho vissuto a Londra e non proprio in un quartiere "bianco" o benestante, non ero a Kensington, né a Notting Hill,, né tantomeno a Paddington. Bensì qualche anno fa mi avreste potuto trovare di notte a passeggiare da solo per Hackney Road, tra case popolari con cartelli "attenti ai ladri d'appartamenti!", passando per Whitechapel vicino alla dimora di Jack the Ripper. Vivevo in un quartiere povero, d'immigrazione nera e asiatica, con la puzza di kebab costante e tanto folklore popolare. Ed ero sempre in giacca, sempre io, talvolta con una bombetta in testa che faceva tanto ridere i colletti bianchi di Oxford Street ma che a Tower Hamlets è stata sempre rispettata e accolta, come me del resto.
A Londra ho passato il periodo più esaltante della mia vita, uscendo di casa con gente che a Roma probabilmente non frequenterei mai (bianchi, neri, bancari, banchieri, rapper, spacciatori, punk, dark). E lo sapete perché? Perché Londra è veramente la città della gioia dello stare insieme, la città dell'energia, del confronto tra diversi prodotti in un unico mercato, la città che seppur impregnata di valori aristocratici accoglie la diversità offrendole una collocazione in linea con le aspettative proprie e di chiunque sia pronto a riceverla.
Una delle mie più grandi amiche a Londra era francese, si chiamava Françoise, aveva i capelli rossi e corti a mo' di crestina, i jeans sempre rigorosamente strappati e si faceva di MDMA. Non c'è mai stata differenza tra noi, seppur mi definisse un "classy boy", azzarderei a dire che ci volessimo quasi bene e io ero sempre la prima persona nella sua lista quando davano un Francis Bacon alla Tate Britain. Tutto questo a Berlino non succede.
È un sabato iniziato con una festa a casa dei miei amici. Presto prendiamo il tram che ci porta a Warschauer Straße per finire poi in una discoteca dove un giamaicano coi dread verdi si sposa con una serie di persone volutamente trascurate e in fila. Entrano tutti tranne il sottoscritto, che viene discriminato dalla soddisfazione del buttafuori nel rimbalzare l'unico in giacca e camicia, millantando per l'occasione una frase che non potrei dire neanche nel paese più odioso del mondo: ovvero di essere orgoglioso di non parlare la lingua del posto. I miei amici credono al buttafuori e non ho voglia di alimentare tensioni, assecondo la situazione, e mi rifugio nel bellissimo Watergate, uno splendido club delle vicinanze dove mi fanno subito entrare e in cui mi godo 2 ore di electro-minimal con notevole vista terrazzata sulla Sprea. Ci rincontriamo tutti quanti per il matinée al Berghain e questo posto merita un capitolo a parte.
Il Berghain è un edificio industriale a più piani, grigio e spartano, che nel tempo si è guadagnato una reputazione notevole, per molti è la discoteca più bella e famosa del mondo. Apre i battenti solo nel weekend ma non si ferma fino a lunedì, orario continuato. La fila all'entrata è quanto di più scoraggiante ci possa essere e finisce ai margini della strada non asfaltata che porta al palazzo. La selezione è DURISSIMA, per molti incomprensibile, talvolta personale: è lo Studio 54 dei gay e dei punk, solo che, al posto di Steve Rubell che al tempo ti controllava lo smoking, o il fisico se eri un bel ragazzo, alla porta trovi un essere tribale e leggendario, una sorta di Druido dal volto cattivo e ribelle: è Sven Marquartd, il personaggio più importante di Berlino. Questo ti squadra bene e se non gli vai a genio ci mette un secondo a scartarti anche dopo 2 ore e mezza di fila.
Volete sapere cosa succede a noi? È molto facile indovinare, ma ve lo dico lo stesso. Siamo rimasti in 3, io, un mio amico e un suo amico omosessuale: loro si presentano mano nella mano, da perfetti innamorati, con dietro il sottoscritto in giacca e camicia. Lo scagnozzo di Marquartd chiede a loro in tedesco se sono in 2 o se ci sono altri: il mio amico include anche me, con qualche titubanza del suo fidanzato, e finisce male. Loro si mettono le mani nei capelli, addirittura l'altro ragazzo fa sempre il gesto di mangiarsi le mani, io sono stretto tra l'insofferenza silenziosa per questo posto così ostile e l'imbarazzo d'aver precluso ai miei amici l'entrata nel miglior locale del mondo.
Non visitare il Berghain per me non è stato solo un peccato, ma un dolore che m'accompagna fino a oggi: non per la gente, non per il divertimento, anche perché diciamocela tutta io con quell'ambiente c'entro zero. Ma per la musica: da quel portone d'ingresso non veniva solo qualcosa di bello, ma la migliore elettronica possibile. Torno a casa sconsolato e inizio seriamente a desiderare di tornare a Roma il prima possibile o di scappare in qualsiasi posto dove la gente non sia vestita in quel modo. La moda di Berlino è un pugno nell'occhio per ogni persona educata dal glamour leggero delle firme italiane: portano tutti quanti scarpe con la suola bassa che a vederle mi ritorna il dolore ai tendini e i pantaloni hanno questi maledettissimi orli alla caviglia stile "mi si è allagata casa".
I miei amici ancora non c'erano stati a Charlottenburg Schloss, quando per smaltire la sbornia abbiamo discusso sul posto e i suoi scenari. Loro Berlino la amano perché città alternativa, esempio vincente d'integrazione razziale. Sono infatuati dalla metro aperta tutta la notte, dalle bici e dalle piste ciclabili che collegano l'intera città: esempi di civiltà democratica, dicono. Io, che forse non sono democratico, che sicuramente non sono mai stato uno "di sinistra che prima ha votato Verdi, poi Arcobaleno, poi PD facendo girotondi e cenette al Pigneto", non riesco a capire quanto una vita e un posto possano considerarsi belli col contributo delle piste ciclabili. Determinante, poi, per loro è l'assenza parziale dei figli di papà della borghesia di Roma Nord, questa gente superficiale che evidentemente riesce a rovinare le esistenze degli alternativi romani con le loro cafonate. Gente che, pur avendola frequentata, mi è sempre sembrata innocua.
In pratica prendi un'area da riqualificare o con un presente problematico, ne ripulisci le infrastrutture con conseguente aumento dei prezzi, delle tasse, degli affitti delle case. Ed eccoti gli studentelli di buone famiglie italiane, tedesche, francesi, scandinave, che si prendono pezzi di quartieri popolari, con la gente del posto che reclama di essere lasciata "in pace con i propri topi" quando non è costretta a lasciare tutto per spostarsi ancora di più all'esterno, nelle aree ancora degradate e problematiche. Insomma quello che a Roma è successo prima a Trastevere, poi a Testaccio, poi a San Lorenzo e ora al Pigneto. Dopo sarà la volta del Quadraro? Chissà, fatto sta che è una tendenza odiosa che certa borghesia progressista vuole vendere come integrazione riuscita. Così ecco che in metropolitana spuntano come funghi italiani con maglietta della salute e occhiali da nerd, gli Enrico Ghezzi dei poveri, in preda a quel fenomeno d'hipsteria che la gentrificazione inevitabilmente comporta. Tutti sono creativi, strani, speciali, ma sarà tutto vero o è un rimpiazzo temporaneo delle mode giovanili di qualche decennio fa?.

Gli ultimi giorni li passo in ostello, i ragazzi hanno tutti i tratti alternativi tipici di chi va a Berlino, quei piercing messi là dove lo sguardo viene più scalfito (mi fanno impressione quelli con la borchia, anche più di una, sotto il labbro inferiore ricoperto di barba lunga). Chiedo loro se siano riusciti a entrare al Berghain, ma neanche sanno cosa sia. Mi chiedo come questo sia possibile per poi virare verso altri argomenti. Al Berghain ci ripasso un'ultima volta, per vedere se pure di pomeriggio la fila si mantiene mostruosa, senza l'intento di riprovarci; peraltro il buttafuori m'ha adocchiato, anche senza giacca e con una felpa bianca dell'Adidas: non è difficile, a parte i gay sono tutti vestiti di scuro. Mi lascio inebriare dai rintocchi dell'elettronica percepibili dall'esterno e mi posiziono, con tanto di birra in mano, a guardare la gente che prima o poi entrerà o se ne tornerà con le pive nel sacco. Cerco di indovinare vincitori e vinti e inaspettatamente capisco dalle scelte dei buttafuori su cosa davvero si basa la selezione al Berghain.
Se vivessi a Berlino e un mio amico mi venisse a trovare, direi a questo di portarsi da casa un vestiario per l'occasione, le cose più pacchiane che abbia nell'armadio, qualcosa anche d'imbarazzante. Gli spiegherei che il Berghain è un posto da vedere a tutti i costi e per questo bisogna essere più strambi ed estremi possibili senza che ciò vada a cozzare col proprio carattere. Marquartd e i suoi sicuramente non possono conoscere tutti i personaggi che gli si presentano alla porta, ma allo stesso tempo hanno sviluppato un sesto senso che gli permette di capire quando una persona finge. Anche perché di finti gay abbracciati ce ne sono una quantità sproporzionata e la loro falsità si percepisce lontana un miglio.
La seconda immagine arriva in extremis, l'ultima notte in cui decido che, sì, voglio divertirmi anch'io. Almeno una notte devo trovare un posto adatto a me e lo trovo: è il Tresor, nightclub a 2 piani, bellissimo. Clamorosamente mi fanno entrare subito, penso che in fondo la selezione non ci sia, ma subito dopo vedo fuori una ragazza anche ben vestita che viene rimbalzata. La musica è ottima, le pareti sono nere con dettagli fluorescenti, anche il bagno è un'installazione d'arte contemporanea, la birra e i drink costano un niente. Passo 20 minuti al bancone a parlare di sesso con un'australiana che poi mi racconta d'essere stata rifiutata da Marquartd: 'certo che bisogna essere proprio froci per non far entrare una così', pensavo. Poi lei se ne va, non aveva voglia e me l'ha detto chiaramente. Io mi sposto verso i divanetti e noto un paio di ragazze more, non tanto carine in realtà, che sprizzano italianità da tutti i pori. Mi faccio avanti e, proprio così, sono di Milano: me le immagino subito a fotografare qualche VIP di nascosto a via Montenapoleone e nel tentativo di superare la selezione all'Hollywood con Inzaghi e Vieri dentro. Mi siedo di fianco alla più slanciata, quella più propensa a parlarmi. Così alla mia domanda "cosa ti piace qui Berlino, perché ci vieni così spesso?" lei risponde: "perché qua, vedi - e mi mostra le scarpe basse - posso venire in discoteca anche con le Vans e non mettermi i tacchi". "E perché a Milano ti metti i tacchi?", chiedo ancora. "Be' perché a Milano devo avere i tacchi".
Proprio su ciò rifletto mentre aspetto sulla banchina della metro il treno che mi porta all'aeroporto. Sullo schermo passano news sull'epidemia di Ebola e credo che si tratti dell'Africa: in realtà c'era stato proprio la notte scorsa un caso della malattia che sta allarmando il mondo nientemeno che a Prenzlauer Berg, dove ho passato metà del soggiorno. In aeroporto una sfila di ragazzi italiani aspettano con me il volo per Roma, già si pensa al prossimo weekend lungo da passare a Berlino, i prossimi sfasci notturni da organizzare insieme. Li guardo attentamente e mi chiedo perché non abbia alcuna voglia di conoscerli, di parlarci insieme come accadde tante volte con altri connazionali nell'Est Europa o negli Stati Uniti. No, non voglio conoscere nessuno a Berlino e a Berlino nessuno vuole conoscere me.
Forse perché dopo Hitler e il Comunismo, c'è ancora un regime, una cosa da cui almeno io evado verso una dimensione di sogni, immagini e poesia. Ne scappo con tutto me stesso: la società e i suoi riflessi.
VP