Charlie Says (2018)
di Mary Harron
Hannah Murray (Leslie 'Lulu' Van Houten)
Matt Smith (Charles Manson)
Sosie Bacon (Patricia 'Katie' Krenwinkel)
Marianne Rendón (Susan 'Sadie' Atkins)
Merritt Wever (Karlene Faith)
Suki Waterhouse (Mary Brunner)
Chace Crawford (Tex Watson)
Annabeth Gish (Virginia Carlson)
"Charlie dice" è il refrain del gruppo di ragazze che insieme al proprio mentore hanno di fatto "terminato" gli anni '60 la notte del 9 agosto del 1969, ovvero quando si sono intrufolate nella mansion losangelina di Sharon Tate torturandola a morte. Perché è successa una cosa del genere? Cosa può aver spinto delle ragazze hippie, in cerca di una guida morale alternativa a quella borghese, ad un atto di tale crudeltà? Ragazze dai valori etici fortissimi, tanto da essere precursori della cultura "dumpster" (ovvero del cucinare scarti alimentari spesso prelevati dai cassonetti dell'immondizia), e che vedono in Charles Manson quella figura paterna e contraddittoria in grado di essere una guida per quella dimensione umana ricercata da tanto. Una psichiatra carceraria indaga: scoprirà che non c'è niente che vada al di là di una basica perdizione umana, che è di fatto quella che la femminista Mary Harron porta alla ribalta prima di Quentin Tarantino con l'imminente Once Upon a Time... In Hollywood.
Si presume che il buon Quentin la butterà al suo solito sul fascino pop della figura di Manson e delle sue seguaci e magari si rivelerà una scelta meno banale e bislacca di quella che alla sola idea possa sembrare. Fatto sta che Mary Harron trova la più giusta delle interpretazioni per analizzare un fenomeno così sconvolgente nel suo vuoto spirituale. Vuoto che neanche un'ideologia di facciata come quella dei figli dei fiori riesce a giustificare. Charlie Says sposta il tiro dall'icona maschile di riferimento verso le controparti affiliate femminili: disegna una serie di formidabili ritratti di giovani donne, con una macchina incollata sui volti talvolta sicuri delle proprie scelte indotte e mano a mano sempre più vacillanti delle proprie straordinarie interpreti. Attrici che reggono alla grande la sfida con la performance già di per sé incredibile del britannico Matt Smith: un Richard Manson perfetto, suggestivamente contraddittorio come mai si è pensato.
Un viaggio nella follia e nel costume di un periodo di cui siamo inevitabilmente figli: l'opera migliore della regista, che trova un equilibrio di narrazione e forma che non aveva avuto in I Shot Andy Warhol, 1996, (ed è incredibile la somiglianza di tutte le attrici con la Lili Taylor dell'epoca) e in American Psycho. La Harron trova nella vicenda di Manson un appoggio ideale per una sintesi degli aspetti migliori dei due film precedenti e si avvale di un uso del fuoricampo nelle scene forti che le permette di rimanere fissa sul lato (dis)umano dei caratteri.
Forse il miglior film su un vero serial killer dai tempi di Henry Pioggia Di Sangue.
VP