Joker (2019)
di Todd Phillips
Joaquin Phoenix (Arthur Fleck)
Robert De Niro (Murray Franklin)
Zazie Beetz (Sophie Dumond)
Frances Conroy (Penny Fleck)
Brett Cullen (Thomas Wayne)
Shea Whigham (Detective Burke)
Bill Camp (Detective Garrity)
Glenn Fleshler (Randall)
Le parole di Martin Scorsese che si scaglia contro l'universo Marvel sembrano di gran lunga più propedeutiche a questo film piuttosto che al lancio del suo The Irishman, che vedremo in anteprima al Festival di Roma e con lo stesso Robert De Niro ancora una volta in prima fila nel cast.
È difficile e contraddittorio discutere su quanto i film di supereroi, che Hollywood dall'alba del 2000 e dalla rivoluzione digitale ci propina ogni anno a ritmi quasi insostenibili, in realtà siano o meno del Cinema e quanta umanità possano mai sprigionare dietro l'esigenza delle majors di incassare e creare mondi su mondi a portata di bambini reali o cresciuti con i popcorn sulle ginocchia e il cervello se non in stand by quantomeno rilassato; fatto sta che quando una produzione decide di andare oltre (che sia un Iñárritu con un Birdman ma anche solo un Carpenter) si va sempre a dama e si fa del grande Cinema, che magari utilizza gli archetipi del mondo fumettistico e pop per afferrare il vero zeitgeist, lo spirito del tempo. Joker di Todd Phillips è un film d'autore, furbo e pragmatico nelle scelte come un blockbuster hollywoodiano, attento ad aderire perfettamente alla mitologia batmaniana di riferimento (tanto che ritroveremo anche una scena para para a quella che Tim Burton girò nel 1989), ma contaminato di stili e colori da opera ultra-avanguardista e anarchica che sembra venire direttamente dagli anni '70.
Joaquin Phoenix viene servito in tutti i modi possibili per un'interpretazione naturalmente mostruosa, De Niro, a proposito del padre Scorsese, replica The King Of Comedy (ovvero Re Per una Notte, 1982). Gotham City è una metropoli che non ha né il fascino gotico di una fiaba di Tim Burton, né il barocchismo fracassone di Joel Schumacher, né l'austerità British ed elegantemente ingessata di Christopher Nolan, non è una cartolina fumettosa come lo sfondo del serial televisivo che divertiva i piccini negli anni '60 a furia di nuvolette e botti. È un concentrato di iper-violenza psicologica che sembra venir fuori proprio da uno dei primi Scorsese o da Walter Hill o addirittura da Il Braccio Violento Della Legge di Friedkin, con volti reali e scavati alla Cassavetes e una rabbia che esce fuori da ogni elemento, persino dallo spettatore stesso: la società è iper-classista, chi è riuscito a fare qualcosa nella vita rivendica la sua bravura al di sopra di una folla disperata e inferocita, che vive in interni diroccati come quelli che si vedevano per la prima volta in Midnight Cowboy (1969) e con un'emergenza di topi che rovistano nella spazzatura che quasi ti fa sentire la puzza come un odorama di John Waters.
E Arthur Fleck, il personaggio clownesco, triste, sconsolato, costantemente preso a pugni dalla vita, dagli ematomi che ammaccano un corpo di per sé ai limiti della denutrizione (e con una risatina patologica che solo i farmaci riescono a placare e che i tagli alla sanità pubblica favoriscono) non è il Joker romantico e arty-fashion di Jack Nicholson e neanche il nichilista del terrore che Heath Ledger interpretava in The Dark Knight. Arthur Fleck non è Joker (e qui è una delle felicissime intuizioni dello script firmato a quattro mani dal regista con Scott Silver, quello di 8 Mile), bensì il povero trentenne precario, per non dire disoccupato, con la mamma malata e probabilmente orfano di un padre ingordo e spietato (altra perla di scrittura), dall'animo gentile di un Patch Adams che non rinuncerebbe a dispensare sorrisi sinceri se la società non fosse così brutalmente ipocrita e imperniata su un darwinismo sociale che fa spavento e che porta la maggioranza delle persone al "mors tua vita mea" di cui il sistema del capitale si ciba.
Immersa in un acquario di filtri iper-reali che rendono i colori pastello quasi una pittura ad olio e il digitale sporco come un 16 o un 8 millimetri di una volta, l'opera di Phillips si attesta a metà strada tra ciò che è la via scorsesiana e il lungo e fastoso viale delle mercanzie da cui attingono inevitabilmente le produzioni. Uno spin-off capace di superare qualsiasi cosa fatta del suo universo di riferimento (e a parte qualche roba di cattivissimo gusto, tipo i film di Schumacher o Batman VS Superman, con il pipistrello tutto sommato siamo abituati bene).
Forse la cosa più importante e rappresentativa dell'Occidente in crisi che l'industria audiovisiva americana abbia mai partorito, che mai come questa volta non può che essere chiamata col suo nome: un Capolavoro.
VP