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giovedì 29 settembre 2016

STORIA DI TOTTI CON GLI OCCHI DI UN ROMANISTA CHE NON L'HA MAI AMATO (29/09/2016)

Questa storia ha un inizio diverso per ognuno di noi. Per me, il vero inizio, fu un giorno di marzo di tanti anni fa. Avevo 9 anni ed ero con la radiolina accesa in casa e le dita intrecciate. Dietro al muro, dall'appartamento accanto, venivano altre preghiere di ben altro colore e natura: "la para, la para, la para, Marchegiani la para". La parò e dalle mie corde vocali partì un porcodio infinito, che probabilmente fece godere ancor di più i figli della signora che salutavo ogni mattina prima di andare a scuola. Giannini aveva sbagliato il rigore dell'1 a 1 e per la prima volta nella mia vita assaporai la sconfitta di un derby: che cosa strana, quando iniziai a seguire la Roma, la Lazio era a Napoli a fare gli spareggi per non finire in Serie C. Nel mezzo ci fu il derby di Di Canio col dito sotto la Sud, ma passò inosservato: la Lazio di Calleri non costruiva niente, quella di Cragnotti prometteva invece tanto e quella sconfitta di marzo fu il primo vero dolore stracittadino di un bambino delle elementari. Giannini, quel personaggio con i capelli lunghi come i miei, il volto un po' angelico, un po' tenebroso, chiamato "il principe" come venivo spesso chiamato io per via del cognome. A procurarsi quel rigore era stato un ragazzino biondo di cui non avevo mai sentito parlare: era vispo, furbo e saltava i calciatori più maturi come birilli. Quel ragazzino era Francesco Totti e quel rigore un passaggio di consegne.

Di Totti sentii parlare dopo un Roma - Foggia in cui segnò il suo primo goal, contro il Foggia di Zeman, Di Biagio e Kolyvanov. Dopodiché mi allontanai dalla passione per quella "Rometta" di cui piansi nel '91 la sconfitta contro l'Inter in Coppa Uefa e che di anno in anno vedevo indebolirsi, con una presidenza del tutto inappropriata come quella di Ciarrapico e pochi giocatori con cui fidelizzare. Sì, vero, Abel Balbo era un grande, il duo con Fonseca faceva sognare più di una volta. Poi c'erano stati Thomas Hässler, con le sue punizioni e il suo carattere teutonico, Sinisa Mihajlović col suo goal splendido al Borussia Dortmund, che al Westfalenstadion fu ribaltato per l'ennesima delusione, Paulo Caniggia che ricorderò più per il suo goal all'Italia a Napoli su uscita sbagliata di Walter Zenga, piuttosto che per il suo favoloso pallonetto in Coppa Italia contro il Milan degli invincibili, se proprio vogliamo mettere da parte, almeno su questo articolo, la volgare bellezza da eiaculazione precoce della figlia Charlotte. Ero vedovo di Rudi Voeller, della sua personalità geniale e composta in campo, della forza anche morale che sprigionava da quel baffo biondo che non potevi non ammirare. Prima del grande buio della ricostruzione, prima degli anni mazzoniani e del primo Sensi, insomma prima di Totti, la Roma era fatta di calciatori così, estrosi, passionali, ma anche straordinariamente maturi e mentalmente lucidi.


C'è stato un buco negli anni '90, un buco estetico e di risultati, un buco europeo in cui la Roma si declassò ai livelli di un'Atalanta qualsiasi. E allora lo stadio si svuotò e la passione per il Cinema si librò in aria e addio campo verde, addio spalti dell'Olimpico, addio Lamberto Giorgi e In Campo Con Roma e Lazio. A volte ricordo quanto mi sembrasse strano e ingiusto il corso della Storia e così devono essersi sentiti tanti classe 1983 come me. Noi che siamo nati nei mesi immediatamente successivi al grande Scudetto di Liedholm e Bruno Conti, che quando nel '91 morì Dino Viola ci domandammo "e chi sarà mai stato questo?" senza sapere che si trattava dell'Uomo che portò la nostra squadra quasi sul tetto del mondo, se solo un difensore di nome Dario Bonetti non avesse rilanciato male rasoterra e un baffetto dello Zimbabwe non avesse iniziato a danzare sulla linea di porta fregando Conti e Graziani. Per noi dell'83 Carlo Ancelotti era un grande giocatore del Milan: pazienza se per 8 anni fu un pilastro della Roma più vincente della Storia, nonché colui che abbracciò il Capitano con lo sguardo basso, dolce e malinconico, che segnò il 2 a 0 da fuori area in una partita decisiva per lo Scudetto, la gioia finale, contro l'Avellino.

E mentre cercavamo di non guardare la realtà e farci montare sopra dai laziali che, dopo i loro anni '80 infausti in cui hanno rasentato la vergogna, rialzarono la cresta sotto i goal di bomber Signori, si faceva largo quel ragazzo che segnò contro il Foggia, che quando il neo Presidente Franco Sensi decise di riportare l'entusiasmo a Trigoria con il grande circo Zemanlandia affinò ancor di più fisico e tecnica. Dopo il grande buco ci ritrovammo davanti un ventenne biondo coi capelli corti tirati indietro col gel, come portavano i coatti all'epoca, il viso un po' malandrino, un po' sprezzante da bullo romano. "Il Pupone" lo chiamavano o "er Bimbo De Oro" secondo lo stile di Carlo Zampa, che nel giro di qualche anno si appropriò dell'immaginario romanista spodestando i Mandolesi fermi alla nostalgia dei tempi che furono.

Totti non mi era simpatico e non perché io fossi moro con i capelli lunghi e lo stile anni '80. Ma perché traduceva a quel tempo uno spirito romano che è quello che meno mi appartiene, per quanto facesse dei goal fantastici, tipo una botta al volo sotto l'incrocio a Bari o un pallonetto a Sebastiano Rossi che pareva disegnato da Giotto.

Dall'altra parte la Lazio di Cragnotti, ancora non travolta dai bond e dalla Cirio, spingeva per vincere, finché non vinse davvero. Il giorno di maggio 2000 che lo Scudetto tornò a Roma sponda biancoazzurra, la Roma pareggiò 2 a 2 a Verona: era tempo di rimboccarsi le maniche, giocatori, Presidente e anche tifosi. Quel giorno che la Roma finì nella mediocrità perenne, senza più alcuna differenza in termini di vittorie rispetto ad una società da sempre considerata inferiore e fino a pochi anni prima tutto sommato innocua. Fu anche il momento in cui iniziai a tifare per Totti. Ho provato un sentimento forte nei confronti del Capitano e gioito quando la prima giornata della stagione seguente lui incornò di testa contro il Bologna dando il via alla grande cavalcata: ero allo stadio. Così esaltai le sue prodezze contro l'Udinese e il Napoli, diventai un tottiano vero, esattamente le stesse dinamiche emotive delle persone che ancora oggi lo trattano come un Dio sceso in Terra.

Il mio Comix scolastico del 2001 in copertina ha proprio l'immagine di Totti (con la maglia da Champions scudettata, stile Palio Di Siena, in prima pagina). E anche l'anno seguente allo Scudetto del 2001 io a Totti ho voluto bene, finché il suo rapporto con un'altra razza di Totti, o per meglio dire una razza di Maradona, proveniente da Bari non mi scavò di nuovo il distacco emotivo per l'uomo e il simbolo. "Totti - Cassano è morto l'italiano", così recitava ad un derby la Curva Nord laziale e io non mi sentii affatto colpito. Io Cassano non l'ho mai sopportato così come non avrei sopportato Maradona al tempo.

Non sopporto quei personaggi anche geniali nella loro istintività che fanno pagare agli altri le loro mancanze. Cassano è quell'umanità straordinaria nella propria balordaggine a cui Totti si sente perfettamente integrato. La differenza è che Totti viene da un quartiere (Porta Metronia) popolare nel senso buono del termine, con quelle famiglie e sottobosco sociale che ti portano i doni come i Re Magi: i valori sani della piccola borghesia che va in Paradiso e che davanti ai problemi della vita sfodera una furbizia sorretta da un cuore grande e tanta retorica. Cassano, come Maradona, viene dal dramma sociale e il suo genio ribelle è quello del povero che grazie ad un dono di Dio si riscopre Re.

Ed è proprio mentre Totti e Cassano danno spettacolo giocando come fratelli di sangue all'oratorio (facendo impazzire le difese avversarie ma senza tagliare mai il traguardo) che c'è la grande trasformazione, il momento in cui tutto cambia, anche il mio rapporto con la Roma. È il 2004 e la Roma di Capello contende lo Scudetto al Milan di Ancelotti. La squadra gioca benissimo e non solo perché Totti e Cassano inventano poesia sotto forma di palle in rete: ci sono giocatori straordinari come Christian Panucci, Amantino Mancini fa un goal di tacco al volo in un derby e qualche minuto più tardi gli fa compagnia Emerson Ferreira da Rosa, un mostro assoluto. A Parma prima di un Parma - Roma formidabile (finito 1 a 4) si rincorrono le voci che da Mosca passano per la Mitteleuropa e arrivano a Trigoria: Sulejman Kerimov e la Nafta Moskva vorrebbero rilevare la società. Ma la Guardia Di Finanza fa irruzione e blocca tutto: la nafta finisce e la Roma rimane a Sensi, che ad un certo punto non ce la fa più a comprare i Chivu della situazione e mantenere la rosa competitiva. È l'inizio della fine. Tutti se ne vanno.

Se ne vanno Capello, Emerson e Zebina: alla Juventus, con la gara successiva all'Olimpico piena di rancore in cui vincono loro per doppio errore arbitrale. In Curva Sud si sprecano i nasi di Pinocchio sul viso del tecnico con cui vincemmo il nostro Terzo Scudetto, reo di aver detto a Mediaset che non sarebbe mai stato il tecnico della Juve. Se ne va Samuel detto "the Wall": al Real Madrid. Cassano ci metterà ancora un po' a liberarci delle sue corna agli arbitri, dei suoi scherzi nello spogliatoio, dei suoi capricci da primadonna: prima ci salverà dalla Serie B grazie ad uno strepitoso goal a Bergamo l'ultima di Campionato.

Totti rimane. Totti, richiesto e corteggiato, non lascia la nave che affonda. Si prende la croce e tira dritto, rifiuta Milan e Real Madrid. È l'inizio di un patto, un patto che riguarda Totti, la squadra, la società, la tifoseria e la città intera. Un patto non scritto: lui non se ne va, ma in cambio pretende la statua. La statua è l'innalzamento del giocatore al rango di istituzione all'interno della società. Totti in poco tempo si prende Roma e la Roma: catalizza su di sé le attenzioni e l'amore dei tifosi, incondizionatamente. Il culto della personalità non si ferma al cucchiaio fatto a Van Der Saar nel 2000 o alla protezione quasi materna per lo sputo a Poulsen in Portogallo, proprio nel 2004. E non si ferma neanche all'esaltazione delle triplette che fanno vincere le partite come a Brescia nel 2002 (rigore, punizione e contropiede solitario con sveglia all'incrocio, sublime, 2 a 3 per noi) e i vari cucchiai da fuori area, dal più celebrato contro l'Inter (che ci riportò ad espugnare San Siro dopo più di un decennio, sempre 2 a 3) al più bello e difficile, quello a Empoli nel dicembre 2003, da fermo, tutto giocato su un movimento di anca fenomenale.

Il culto parte dall'assunto "se andava al Real vinceva minimo 4 Palloni D'Oro" arrivando al ricatto morale ambientale. "È rimasto per noi", "poteva guadagnare di più", "fa segnare anche quella pippa di Perrotta", "non ci fosse lui il 4-2-3-1 di Spalletti andrebbe a farsi fottere", "come si permette Ranieri di far giocare Borriello al posto suo?", "Luis Enrique è un pazzo: ha indietreggiato Totti che così non può più segnare e scalare il record di goal segnati di Piola", "gli americani vogliono silurarlo e togliere la romanità alla Roma". Dal 2004 in poi la Roma è Totti e Totti è la Roma e per un romanista di un certo tipo, come me, che vorrebbe una società forte, moderna, attrezzata, con nuovo impianto di proprietà e internazionalizzazione del marchio, non è una cosa né bella né romantica.

Ma la forza di Totti e del tottismo non si ferma solo alla Roma. Totti diventa qualcosa di ancora più grande quando decide di sposarsi con Ilary Blasi: il matrimonio è trasmesso in diretta nazionale e viene visto da milioni di persone in Italia e non solo. Così Totti diventa un'azienda, un'azienda che vuole comunicare dei valori semplici e comprensibili a tutti come una pubblicità della Barilla e della Coca Cola. Lui è l'ultima bandiera del Calcio mondiale, dopo gli addii dell'argentino Javier Zanetti e di Alessandro Del Piero, trattato non da divinità da una società, la Juve, per la quale vittoria e competitività sono le uniche cose che contano. Nesta, che ai tempi della Lazio era suo rivale, nel 2002 approdò al Milan per vincere tutto in rossonero.

Totti bandiera e padre di famiglia, punto di congiunzione tra la piccola borghesia che viene dal proletariato e il mondo dorato dello showbiz' paratelevisivo. Totti su Topolino diventa PaperTotti e non lascia i suoi poveri amici per andare a vincere di più. Intanto sua moglie da letterina per Gerry Scotti diventa presentatrice e volto di prim'ordine della videocrazia italiana.

È in questo clima di passione morbosa e riverenza aggressiva che io torno indietro. Vivo gli anni di Spalletti e rivedo in streaming le partite della Roma dei primi anni '80, quella forte, quella impressa nello sguardo battagliero e seducente, come un agente segreto, di Paulo Roberto Falcao. Colui che a Torino nell'81 si prese gli elogi dell'intero stadio approfittando di un errore della retroguardia juventina e insaccando alle spalle di Zoff. Colui che due anni dopo portò una Roma, reduce dalla sconfitta in casa in rimonta contro i rivali per lo Scudetto, a sbancare il terreno di Pisa, con una incornata di testa e urlo a squarciagola a far capire a tutti, se proprio ce ne fosse stato bisogno, che il 1983 era il nostro anno di grazia. Falcao era un elegante e superbo rivoluzionario.

Totti rivoluzionario non lo è mai stato. È sempre stato un conservatore: un conservatore della sua immagine e del suo peso specifico all'interno della squadra e nei confronti dell'ambiente. Totti va a San Pietro per la morte del Papa, Totti rappresenta la persona normale a Roma, con i suoi vizi e le sue virtù. Che c'erano anche in Agostino da Tor Marancia, ma sedimentati nel suo volto livido e le emozioni trattenute proprio lì dove il cuore ha i suoi cancelli.

Capire Di Bartolomei è molto più difficile di capire Totti. Di Bartolomei era per un popolo ambizioso, un popolo che si incuneava nelle contraddizioni dell'animo umano. Totti non si sparerebbe mai, non solo perché è una persona sana con valori inossidabili, ma anche perché la sua persona e la sua generazione di calciatori non possiedono il valore della tragedia nella sua forma più pura e spirituale.

Rivedere la Roma di Viola e poi quella degli anni di Totti fa davvero uno stranissimo effetto: è come passare dall'Età Imperiale all'Età Regia, tornare mentalmente indietro, con un monarca assoluto al trono.

Il calcio degli anni '90 ha sdoganato il fanciullino che è in ogni giocatore: Del Piero e le linguacce, Totti e i pollicioni in bocca, Bobo Vieri eterno fancazzista tra Formentera e Miami, Borriello trombeur de femmes, le cassanate, le ringhiate di Gattuso, gli scherzi, i miliardi di Lire, i milioni di Euro, le barche, le robe commerciali, il marketing applicato alle persone.

Ogni tanto va bene tornare a prima di tutto questo. E riscoprire gli Orlandi Furiosi che si chiamavano Pietro Vierchowod e Emidio Oddi. Aspettando gli scarpini al chiodo e nuovi fanciulli per una nuova umanità.


VP