In sala c'è una famigliola con tre bambini e un vecchio che forse ha in mente i tempi che furono. Belli o brutti non importa, rimane la consapevolezza di se stessi, quella già maturata dagli anni e dalla vita che è al termine, quella ancora da crearsi nel tempo, quella che si costruisce anno dopo anno in un limbo di falsa giovinezza che non vede mai fine. Ci sono io, che mi accomodo in una delle file avanti per incontrare per primo le immagini di un 4:3 d'altri tempi ed essere poi investito dalla gamma del Technicolor sparato direttamente dai mondi straordinari.
Non importa a che punto della vita si è, non importa dei drammi, dei sorrisi, dei conflitti di una volta o attuali: ciò che davvero importa è far parte di quelle persone di buon cuore che da 40 anni (quindi si presume dal 1900, anno di pubblicazione de Il Meraviglioso Mago Di OZ di L. Frank Baum) decreta il successo di una fiaba di evasione e ritorno a casa: lo dice l'incipit che segue il ruggito di un desaturato Leo del '39. È tutto diverso rispetto ad oggi, nel ritmo, nella voglia di raccontare, nell'obiettivo di stupire grandi e piccini senza botti o meraviglie del digitale ma con un artigianato narrativo fatto di idee e creazioni.
Era un'altra America, un'altra Hollywood, un altro libero mercato. Un'altra funzione del mezzo cinematografico, un'industria che ancora non celebrava se stessa al punto di mettere le tradizioni letterarie ottocentesche al servizio di biglietti da staccare per rinnovare il proprio establishment. In realtà le grandi major basavano il proprio palinsesto sui bisogni dei target di riferimento: alle donne il melodramma, agli uomini il western, ai bambini l'animazione e il racconto di formazione. Anche allora era così, eccetto la mancanza di avversari tecnologici: non c'era la TV, non c'era Internet, c'era giusto la Radio che però portava ad OZ solo a parole e non col colore, con gli occhi bagnati di Dorothy e le meraviglie sceniche del buon mago che sottomise bonariamente interi popoli di nanetti con abiti buffi e cappelli luccicanti.
Visto oggi, all'epoca dei rincoglionimenti, dei botti, delle guerre stellari, dei green e blue screen, della digitalizzazione, Il Mago Di OZ, il primo, quello di Victor Fleming, che nel 1939 firmò anche la regia di Via Col Vento (in pratica in un anno ha posato due pietre miliari dell'intera storia del Cinema), appare come un film di ultra-avanguardia, una roba più vicina al Gabinetto Del Dottor Caligari che ad un film hollywoodiano diciamo dagli anni '60 in poi. Eppure, al netto della delizia caramellosa, del perbenismo educativo reso irresistibile dal potere della fiaba, non riusciamo mai a conferire a Victor Fleming una reputazione di regista del quale conservare la memoria dentro uno strato sensibile del cuore. Come Kubrick, Tarkovsky, Sokurov, Herzog, Truffaut.
Il motivo ce lo dà la storia del Cinema: ogni studioso sa perfettamente che la nostra idea di autorialità è derivata dal cinema francese e più precisamente da quel grande movimento politico, ideologico (ancor prima che editoriale) che fu Cahiers Du Cinéma. È grazie a Bazin, Rivette, ai critici francesi degli anni '50 e '60 che noi diamo al regista la paternità dell'opera cinematografica. Grazie a loro noi studiamo gli stili di messa in scena, le forme, le intenzioni del terzo occhio che guarda, rivalutiamo i film degli albori e le grandi avanguardie tedesche e sovietiche degli anni '20 partendo dalle intenzioni dell'artista "metteur en scene". Si chiamava La Politica Degli Autori ed è a lei che dobbiamo ad esempio la riscoperta dei lavori della RKO, capolavori come Il Bacio Della Pantera (1942) di Jacques Tourneur.
Infatti all'epoca in America le cose erano molto diverse: se ad un funzionario della Metro Goldwin Meyer, ma a dire il vero anche ad un comune spettatore, avessimo chiesto chi fosse l'autore di Gone With the Wind, questi non avrebbe mai dato il nome di Victor Fleming: per un americano dell'epoca, Via Col Vento era un film di David O'Selznick. Ovvero l'autore di un film non era il director, bensì il producer.
Il Mago Di OZ è un esempio ancor più straordinario di questo modo di vedere la Settima Arte: la regia è firmata da Victor Fleming, ma cercando bene nei credits scopriamo che tutte le scene in bianco e nero ambientate in Kansas (ovvero l'inizio e la fine) furono girate nientemeno che da King Vidor, il grandissimo regista di The Crowd e Duello Al Sole. Addirittura c'è anche il nome di George Cukor, che l'anno successivo firmerà una delle vette assolute della golden age hollywoodiana: Scandalo A Filadelfia (1940): in pratica nelle grandi produzioni delle major il regista era una figura assolutamente interscambiabile. L'unica davvero imprescindibile era quella di Mervyn LeRoy, ancora una volta chi metteva i soldi.
Ma nella favola i soldi non ci sono, ci sono le galline e i maiali, le staccionate da cui cadere e un desiderio di evadere per mettersi al sicuro dai rischi del mondo: finire "somewhere over the rainbow", dove le ricche proprietarie di intere contee sono streghe vere, con scucchia e faccia verde e sempre una scopa per volare, e tanti personaggi buffi ti aiutano sulla strada di Smeralda, dove il grande mago di OZ può fare l'ultima grande magia. Tre sfaticati lavoratori del Kansas diventano rispettivamente uno spaventapasseri, un uomo di latta sempre da oliare e un leone fifone. E sono proprio loro, niente trucchi, niente inganni... o meglio i trucchi ci sono, ma talmente evidenti che neanche un bambino senza esperienze di visioni filmiche si lascerebbe fregare. Un uomo di latta è un uomo vestito da uomo di latta e così via... una carnevalata continua fatta di balletti e percorsi dorati da seguire tutti sottobraccio a Dorothy, giovane e bella Alice nel paese dei colori pastello, degli alberi maleducati che tirano addosso le mele e dei papaveri di plastica che addormentano mortalmente: come dovrebbe essere altrimenti un mondo arcobaleno?
L'innocenza del volto ingenuo e lacrimoso di Judy Garland, che si farà nuovamente dirigere da George Cukor in È Nata una Stella (1954), ha portato l'Oscar e l'inizio di qualcosa di nuovo che ancor oggi non ci abbandona: la hit musicale legata alla colonna sonora. Somewhere Over the Rainbow fu un successo planetario, mai così esemplificativa dell'anima di un film. Anche se poi a dire il vero, più che la Garland, il vero fenomeno è il cagnolino Totò: segue gli avvenimenti del film con l'autorevolezza del vero protagonista assoluto, la vera chiave che apre le porte della strega cattiva e i cuori dei bambini e non solo. Ci si interroga più volte cosa mai potesse passare in quella testolina, sul set di Culver City (California), in mezzo a nanetti, balletti, uomini di paglia e città di cartapesta.
È tutto buffo, ai limiti del delirio: il film perfetto da vedere sotto LSD, una nuova visione per una nuova esperienza di Cinema e di vita. Salutato il mago, con la sua faccia verde ad ologramma che ricorda quella di Jim Carrey in The Mask, è ora di tornare a casa, perché "nessun posto è bello come casa propria". E allora schiocco le scarpe Adidas come Dorothy fa con le sue rosse sbrilluccicose, prese dalla strega dell'est e desiderate da quella dell'ovest, e abbandono la sala col cuore riscaldato, non prima di incrociare lo sguardo con l'allegra famigliola saltellante e il vecchio a testa bassa che forse starà ricordando il 1939 in Europa: c'erano i campi di concentramento, altro che somewhere over the rainbow, altro che gente di buon cuore. I film americani erano banditi.
Quel signore, insieme ai nostri nonni, hanno visto Il Mago Di OZ nelle sale dal 1949 in poi, esattamente un decennio dopo l'uscita americana. In Germania dal 1951... anche questa è una storia del Novecento.
VP