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Era un'altra America, un'altra Hollywood, un altro libero mercato. Un'altra funzione del mezzo cinematografico, un'industria che ancora non celebrava se stessa al punto di mettere le tradizioni letterarie ottocentesche al servizio di biglietti da staccare per rinnovare il proprio establishment. In realtà le grandi major basavano il proprio palinsesto sui bisogni dei target di riferimento: alle donne il melodramma, agli uomini il western, ai bambini l'animazione e il racconto di formazione. Anche allora era così, eccetto la mancanza di avversari tecnologici: non c'era la TV, non c'era Internet, c'era giusto la Radio che però portava ad OZ solo a parole e non col colore, con gli occhi bagnati di Dorothy e le meraviglie sceniche del buon mago che sottomise bonariamente interi popoli di nanetti con abiti buffi e cappelli luccicanti.
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Il motivo ce lo dà la storia del Cinema: ogni studioso sa perfettamente che la nostra idea di autorialità è derivata dal cinema francese e più precisamente da quel grande movimento politico, ideologico (ancor prima che editoriale) che fu Cahiers Du Cinéma. È grazie a Bazin, Rivette, ai critici francesi degli anni '50 e '60 che noi diamo al regista la paternità dell'opera cinematografica. Grazie a loro noi studiamo gli stili di messa in scena, le forme, le intenzioni del terzo occhio che guarda, rivalutiamo i film degli albori e le grandi avanguardie tedesche e sovietiche degli anni '20 partendo dalle intenzioni dell'artista "metteur en scene". Si chiamava La Politica Degli Autori ed è a lei che dobbiamo ad esempio la riscoperta dei lavori della RKO, capolavori come Il Bacio Della Pantera (1942) di Jacques Tourneur.
Infatti all'epoca in America le cose erano molto diverse: se ad un funzionario della Metro Goldwin Meyer, ma a dire il vero anche ad un comune spettatore, avessimo chiesto chi fosse l'autore di Gone With the Wind, questi non avrebbe mai dato il nome di Victor Fleming: per un americano dell'epoca, Via Col Vento era un film di David O'Selznick. Ovvero l'autore di un film non era il director, bensì il producer.
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Ma nella favola i soldi non ci sono, ci sono le galline e i maiali, le staccionate da cui cadere e un desiderio di evadere per mettersi al sicuro dai rischi del mondo: finire "somewhere over the rainbow", dove le ricche proprietarie di intere contee sono streghe vere, con scucchia e faccia verde e sempre una scopa per volare, e tanti personaggi buffi ti aiutano sulla strada di Smeralda, dove il grande mago di OZ può fare l'ultima grande magia. Tre sfaticati lavoratori del Kansas diventano rispettivamente uno spaventapasseri, un uomo di latta sempre da oliare e un leone fifone. E sono proprio loro, niente trucchi, niente inganni... o meglio i trucchi ci sono, ma talmente evidenti che neanche un bambino senza esperienze di visioni filmiche si lascerebbe fregare. Un uomo di latta è un uomo vestito da uomo di latta e così via... una carnevalata continua fatta di balletti e percorsi dorati da seguire tutti sottobraccio a Dorothy, giovane e bella Alice nel paese dei colori pastello, degli alberi maleducati che tirano addosso le mele e dei papaveri di plastica che addormentano mortalmente: come dovrebbe essere altrimenti un mondo arcobaleno?
L'innocenza del volto ingenuo e lacrimoso di Judy Garland, che si farà nuovamente dirigere da George Cukor in È Nata una Stella (1954), ha portato l'Oscar e l'inizio di qualcosa di nuovo che ancor oggi non ci abbandona: la hit musicale legata alla colonna sonora. Somewhere Over the Rainbow fu un successo planetario, mai così esemplificativa dell'anima di un film. Anche se poi a dire il vero, più che la Garland, il vero fenomeno è il cagnolino Totò: segue gli avvenimenti del film con l'autorevolezza del vero protagonista assoluto, la vera chiave che apre le porte della strega cattiva e i cuori dei bambini e non solo. Ci si interroga più volte cosa mai potesse passare in quella testolina, sul set di Culver City (California), in mezzo a nanetti, balletti, uomini di paglia e città di cartapesta.
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Quel signore, insieme ai nostri nonni, hanno visto Il Mago Di OZ nelle sale dal 1949 in poi, esattamente un decennio dopo l'uscita americana. In Germania dal 1951... anche questa è una storia del Novecento.
VP