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giovedì 26 aprile 2018

RIVEDERE AKIRA IN SALA (26/04/2018)

Vite dei bassifondi di una Tokyo che ingloba in sé i passati cinematografici più vetusti (Metropolis) e recenti (Blade Runner), ragazzi che non studiano e rispondono male a ogni ordine che viene dall'alto delle autorità competenti e dal basso degli insegnanti di istituti frequentati a malavoglia. I giovani metropolitani vogliono sfrecciare in moto, in corse clandestine e rincorrendo piazze di spaccio che cambiano di volta in volta. Ma se l'immoralità dei giovani è evidente quanto il loro linguaggio tagliente e diretto, mai così lontano dall'aplomb nipponico classico, per cui l'onore è ancora un'eredità imperiale di fronte alla modernità dilagante, l'immoralità delle classi dirigenti (e della polizia) è ancora più insopportabile proprio in quanto nascosto dalle responsabilità urlate di continuo. Un manga che per l'appunto usa i contrasti forti tra i caratteri per esprimere la forza degli stessi, sentimenti esplicati nel modo più diretto e rumoroso e un maledettismo che forse oggi pare ingenuo se non del tutto fuori luogo.

Chissà cosa avrà pensato negli anni '80 il pubblico (nipponico e non) di un'opera come quella di Katsuhiro Ôtomo (una filmografia di direttore e sceneggiatore che proprio da allora spiegava le sue ali per il cielo cyberpunk del paese più contraddittorio nel suo rapporto tra presente, passato e futuro), così lontana sia dai robot epici che attecchirono proprio all'alba di quel decennio (un esempio lampante è Daitan 3, 1980), sia dagli eroi con le bende sul viso e vestiti tutti di nero (Capitan Harlock) nonché chiaramente dei mondi magici, toccanti, raffinati ed umanistici dello Studio Ghibli.

Il suo è puro pus underground di quella Era, formato, gonfiato e spiattellato sullo schermo, in un finale ancora scioccante nella sua sgradevole epopea, come il liquido di Blob, il cui remake uscì neanche a farlo apposta proprio quell'anno.

Sicuramente Akira fu in buona compagnia: oltre ai prodotti occidentali già citati, il filone cyber si sarebbe arricchito con la sua punta di diamante, Tetsuo, e il suo regista più eclatante Shin'ya Tsukamoto. Corpi che si fondono o si influenzano di invadenze tecnologiche, mondi distopici che assistono con impassibilità alla catastrofe, alla violenza e all'indifferenza (il post-umano) che ormai hanno il via libera.

L'unica cosa da fare, come il ribelle Akira e i suoi sgherri per l'appunto fanno, è estraniarsi nei bar e inseguire l'ebrezza della velocità con mezzi a due ruote idealizzati e a cui riservare ogni sentimento ancora residuo. Aspettando che il disastro abbia inizio, con il supporto di polizia e autorità, che non metteranno i ragazzi sulla buona strada bensì le proveranno tutte pur di salvare le apparenze anche sulle spalle degli stessi giovani e delle loro sensibilità tradite.

E questo sarebbe un film d'animazione; un prodotto che sprigiona violenza in ogni frame e che ancora oggi (a 30 anni dalla sua uscita e con un nuovo doppiaggio italiano) ha la capacità di stordire lo spettatore con le sue urla, i suoi rimbombi, le sirene di un inferno di neon e grattacieli che sembra (e probabilmente è) l'anticamera dell'Inferno. E disorientare il pubblico di oggi, così come probabilmente quello di ieri, con una scrittura un po' sfilacciata che incespica nel finale, nel tentativo di dare a ogni personaggio una motivazione plausibile e al plot un sottotesto scientifico che sappia sorreggere il pirotecnico ambaradan.

Più di una decina di persone, soprattutto giovani, abbandonano la sala nel confuso pre-finale. Scommetto non per la violenza o qualsiasi shock morale della visione. Sono abbastanza certo che quei volti spaesati su cui ho spostato momentaneamente l'attenzione proprio per fotografare l'evento stessero cercando di ricostruire, poco prima di scendere l'ultimo scalino e varcare con titubanza e un pizzico di fastidio la tenda rossa dell'uscita, una possibile interpretazione di una storia che ad un certo punto diventa davvero cervellotica e ingarbugliata.


E questo mi fa pensare su quanto ormai noi abbiamo smesso di essere solidali verso gli artisti che non ci fanno capire del tutto le loro intenzioni, con i prodotti come questi, popolati di personaggi ribelli non soltanto nei mondi disegnati con gran dispendio di mezzi (per l'epoca fu una produzione che vide coinvolte le più grandi case nipponiche per un costo che superò di gran lunga le operazioni più ambiziose che si erano già fatte) ma anche e soprattutto ribelli nel nostro ormai scontato e catalogante modo di accogliere i caratteri di una favola.

Buon anniversario grande, scomodo, Akira.


VP