The Irishman (2019)
di Martin Scorsese
Robert De Niro (Frank Sheeran)
Jesse Plemons (Chuckie O'Brien)
Al Pacino (Jimmy Hoffa)
Anna Paquin (Peggy Sheeran)
Joe Pesci (Russell Bufalino)
Bobby Cannavale (Felix 'Skinny Razor' DiTullio)
Stephen Graham (Anthony Provenzano)
Harvey Keitel (Angelo Bruno)
Non c'è mitologia del crimine, fascinazione ironica dei boss (Scarface) o enfasi dei tempi andati, degli anni che passano, della pelle che invecchia e del corso della memoria di leoniano o coppoliano respiro. La vecchiaia c'è, ma è stanca, con quel senso di debolezza tutto trattenuto nella propria battaglia contro la morte imminente e con cui si convive dai tempi giovanili della guerra mondiale ad Anzio, quando i tedeschi si scavavano la fossa sperando che così l'irlandese americano col fucile potesse dar grazia.
Se c'è una cosa di simile alla nuova opera di Scorsese, del tutto inedita anche nella propria stessa filmografia, è nel finale che normalizzava il quotidiano di un passato criminale (una pastasciutta condita col ketchup) di Goodfellas, Quei Bravi Ragazzi, 1990. Ma in verità anche l'uso non ostentato del mezzo digitale e del format televisivo tendente alla sublimazione cinematografica (non del tutto grande televisione, non del tutto grande Cinema, polemiche contro la Marvel e i supereroi permettendo) che inevitabilmente la produzione Netflix comporta, ha in sé l'andamento provato di uno storytelling che non ha più le ingenui e vitali accelerazioni di Mean Streets e di Taxi Driver ma procede compassato. Fino alla morte non solo dei personaggi (o crivellati o debilitati dall'invisibile, invincibile e inesorabile fondo della strada) ma anche della possibilità di renderli iper-reali, cinematografici, distanti da una realtà che qui come non mai invece è così vicina a ciò che c'è oltre lo schermo.
C'è tanto fascino umano nel protagonista che nel Dopoguerra torna in America, si mette al volante per trasportare roba e sbarcare il lunario, cominciare la sua ascesa alla corte di un boss che all'inizio appare come un meccanico ben vestito e dall'accento italiano (Joe Pesci che qui estende la grandezza della sua specificità rispetto al capolavoro del '90 con Ray Liotta), per poi destreggiarsi con astuzia tra malavita e politica sindacale (i cui intrecci sono così scandalosamente naturali da essere raccontati quasi in modo cinicamente scontato). Così come non si può non amare l'idealismo assoluto, che si fa beffe di signorini, signorotti e militanti armati, per le strade di Detroit così come nei saloni chic di un Novecento italoamericano, che almeno negli ambienti rimane sempre un po' lo stesso, del sindacalista Jimmy Hoffa, nemico dei Kennedy e con tante, troppe persone che lo vorrebbero fuori dai giri fin dagli anni '50, quando era una superstar assoluta.
Le tre ore e mezza di visione sono la summa di un autore che dà il meglio di sé negli ambienti che sono il suo superficiale marchio di fabbrica (Scorsese è stato tanto altro, soprattutto nelle ultime decadi) e che si ripropone e si rinnova trovando nel moto rettilineo uniforme una tensione mentale e narrativa (script brillante targato Steven Zaillian, Schindler's List, dal libro di Charles Brandt) in grado di sublimare le eccellenze produttive, registiche, fotografiche (Rodrigo Prieto, il messicano di Argo e Silence) e interpretative di cui si vanta.
Il finale è in una stanza socchiusa ai ricordi e al destino incombente e che ha riguardato e riguarderà per sempre tutti: malavitosi, potenti e spettatori di ogni portata e periodo storico. Mestamente magniloquente.
VP