Once Upon a Time... In Hollywood (2019)
di Quentin Tarantino
Leonardo DiCaprio (Rick Dalton)
Brad Pitt (Cliff Booth)
Margot Robbie (Sharon Tate)
Emile Hirsch (Jay Sebring)
Margaret Qualley (Pussycat)
Timothy Olyphant (James Stacy)
Julia Butters (Trudi)
Austin Butler (Tex)
Il 1969 era l'anno di Woodstock, ma era anche l'anno di uno degli episodi più efferati della cronaca nera americana: un'attrice, compagna del regista di punta che dalla Polonia si prese Hollywood, sarebbe stata trucidata da una setta di ragazze annebbiate che mischiano cultura hippie con quella dumpster del riciclare scarti alimentari. Nelle vicinanze era probabile che un attore non dei più affermati (eterno villain di celluloide western) potesse sentire puzza di retrocessione a Roma per progetti alla Corbucci, affogasse nell'alcol e nella depressione insieme ad uno stuntman che se la prende bene pur vivendo col fido cagnolone in una roulotte scalcagnata. Un universo in cui il cazzeggio è di casa, persino per chi viene dall'oriente e fa film di arti marziali, ostentando le sue capacità a dismisura, e chiacchiera, chiacchiera, chiacchiera, finché non finisce sul cofano ammaccato di un produttore.
Una golden age infranta dall'orrore, che volendo potrebbe anche essere rimosso, un po' come Hitler in un film sulla seconda guerra mondiale: poteri del pulp, della pop culture, dell'exploitation e tutta la robaccia degli anni '70 in pellicola desaturata che Quentin Tarantino, sceneggiatore e metteur en scène del panorama americano degli anni '90 e ingegnere di un immaginario del feticismo e del vintage perpetuo da un quarto di secolo a questa parte, continua a magnificare a mo' di ripetizione estenuante delle sue ossessioni estetiche, di piedi femminili da star, da ragazza hippie e country sporchi di terra e inquadrati davanti, sopra, sotto, ovunque.
Un film del genere fa la felicità di chi conosce il regista, di chi ne ammira le caratteristiche ben sapendo di trovare in una ogni nuova opera quello che già sa, tutto ciò che ci si aspetterebbe da questa California magnificata e contaminata di echi leoniani (fin dal titolo) e di tutto il genere americano e italiano (e italoamericano) possibile. Fa un po' meno felice chi invece più di 25 anni fa vide in Resevoir Dogs e in Pulp Fiction il futuro, quando Quentin non se lo filava tutta questa gente, a momenti neanche Hollywood che al massimo gli commissionava sceneggiature per Tony Scott (Una Vita Al Massimo ovvero True Romance)... e chi crede, proprio perché amava Tarantino e lo ama ancora quando torna a sperimentare qualcosa di nuovo ed esplorare territori ancora non calpestati (Django Unchained), che quel pulp tanto ostentato e portato in gloria sia qualcosa di serissimo. Qualcosa che non può essere usato come giochino per cambiare un corso della Storia che, proprio perché vede in primo piano un momento così leggendario per l'industria culturale occidentale (il 1969), è sacrale. Tarantino fa una cosa che non si può spoilerare in una recensione e che ha già fatto: una cosa che soprattutto gli appassionati non dovrebbero mai perdonargli.
Perché al di là di DiCaprio, Pitt e Margot Robbie, che insieme a una L.A. pre-70's salvano il film dalla stroncatura piena, il Cinema e le sue tecniche e i suoi miti intrecciati con la cruda realtà sono una cosa come già detto seria. Non ci si aspettava una roba profonda e lucida come il film di Mary Harron uscito poco fa (Charlie Says), ma porca miseria!
VP