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lunedì 2 settembre 2019

Il Mostro Di St. Pauli (2019) by Fatih Akin


Der Goldene Handschuh (2019)
di Fatih Akin

Jonas Dassler (Fritz Honka)
Margarete Tiesel (Gerda Voss)
Katja Studt (Helga Denningsen)
Adam Bousdoukos (Lefteris)
Marc Hosemann (Siggi Honka)
Martina Eitner-Acheampong (Frida)
Tristan Göbel (Willi)
Greta Sophie Schmidt (Petra Schulz)


Der Goldene Handschuh ovvero "il guanto d'oro" del titolo originale, ma anche di tutte le versioni eccetto quella italiana che non si fida della sensibilità analitica dei cittadini che evidentemente per accorrere nelle sale (con 7 mesi di ritardo) hanno bisogno della didascalia, è una bettola di Amburgo frequentata perlopiù da nazi-ubriaconi, vecchi e puttane (più qualche "sorella" in cerca di redimere anime). E anche da Fritz Honka, uomo deforme che sfoga i suoi dolori di elemento diverso nelle bottiglie di Schnapps e nei corpi martoriati delle sue vittime accalappiate nel locale e portate nel suo attico limitrofo, nel quartiere a luci rosse di St. Pauli, e massacrate a dovere finché i singoli pezzi entrino nel puzzolente ripostiglio nascosto del pur misero spazio. Rischia di finirne vittima una biondissima ragazza che diventa il metro di paragone di ogni fantasia di Fritz che, salvato per una volta dalla provvidenza, cercherebbe pur di togliersi dal sentiero buio: la società e le sue situazioni lo riporteranno al Guanto D'Oro per riprendere il suo infausto cammino di morte.

È il 1970 e mai una rappresentazione ambientale di quegli anni è stata così dettagliata. Il turco di Germania Fatih Akin (La Sposa Turca, Soul Kitchen) approda allo splatter, spesso fuori campo ma non per questo meno crudo, con una ricostruzione storica della vicenda del più feroce serial killer della Germania settentrionale che fa spavento per l'attinenza dei set e dei volti degli attori ai veri luoghi e ai protagonisti di una storia di massacro innanzitutto sociale. Era dai tempi di Fassbinder che non si vedeva una Germania Ovest così sporca e degradata, pur virata in una dimensione grottesca che esalta la bizzarria del male del protagonista (interpretato da un giovanissimo e irriconoscibile Jonas Dassler da Oscar) e dialoga in modo ambiguo proprio con la verosimiglianza quasi iperreale degli ambienti.

La critica lo ha stroncato pesantemente accusando il regista di autocompiacimento del ridicolo e del brutale. Che c'è sicuramente: il tono del racconto è quasi divertito e non si avverte nessuna pietà umana e morale tanto per il losco figuro quanto per le sue vittime. Ma bisogna pur ricordare per un decennio buono si è parlato con toni entusiastici (scomodando spesso persino Arancia Meccanica) di una roba davvero modaiola come Bronson di Refn. E se si accettano le stilizzazioni della violenza del rampante regista danese tanto di più il lavoro di Akin deve essere rispettato, pur nelle sue scelte ridondanti e nella volgarità ideologica dell'operazione, destinata di forza a rimanere nell'estetica di questi anni.


VP