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domenica 1 settembre 2019

Il Signor Diavolo (2019) by Pupi Avati


Il Signor Diavolo (2019)
di Pupi Avati

Gabriel Lo Giudice (Furio Momenté)
Filippo Franchini (Carlo Mongiorgi)
Cesare Cremonini (Giulio Mongiorgi)
Massimo Bonetti (Giudice Malchionda)
Lino Capolicchio (Don Zanini)
Chiara Caselli (Clara Vestri Musy)
Gianni Cavina (Sagrestano)
Alessandro Haber (Padre Amedeo)


È il 1952 e la segreteria della Democrazia Cristiana al potere è in allerta: nel cattolicissimo Veneto è accaduto qualcosa di strano, qualcosa in grado di portare i voti dall'altra parte e che riguarda una delle famiglie più rilevanti e storicamente devote. Un bambino ha ucciso uno strano individuo dai denti e dalla peluria del suino: si dice che questo sia il frutto di un'unione per l'appunto tra un maiale e la signora borghese, che stanca delle superstizioni ha uno scatto di ribellione sociale e politica. E non solo: pare che questo ragazzo da bambino abbia a sua volta massacrato la sorellina in culla a furia di morsi con la caratteristica dentatura. Alcide De Gasperi manda un funzionario per capire il mistero e nel caso porre rimedio.

Un funzionario mandato in una regione dove le forme arcaiche sono ancora praticate nei modi più sinistri e brutali, come 40 anni fa un restauratore veniva mandato nella provincia ferrarese per indagare su un affresco in una Chiesa: era La Casa Dalle Finestre Che Ridono (1976), l'exploit di un giovane autore che dopo aver bissato con Zeder (entrambi scritti anche con Maurizio Costanzo) passò dal genere puro al dramma sociale contemporaneo e in costume, fino all'Arcano Incantatore che negli anni '90 fu l'ultima delle incursioni gotiche del nostro.

Un horror bucolico romantico dalle atmosfere vagamente lovecraftiane che si adatta alla sensibilità e alla curiosità per la provincia (le sue violente credenze, le morali religiose e pagane) di Pupi Avati. Che anche qui si avvale di una fotografia chiaroscurale di Cesare Bastelli che dona la giusta atmosfera alla storia, insieme ai volti nuovi (il piccolo Filippo Franchini) e storici del suo cinema (Gianni Cavina e Lino Capolicchio entrambi già ne La Casa Dalle Finestre Che Ridono) che rendono l'esperienza credibile e avvolgente. La risoluzione del mistero verso il basso e con uso delle lapidi come in Zeder, la sensazione di un mistero condiviso da una comunità in barba alle passioni e alle debolezze individuali: corsi e ricorsi di un autore che dialoga col suo passato come se pur nella distanza temporale ci fosse un filo rosso a legare il suo cinema di genere, che nel marasma delle altre cose fatte negli anni viene a galla se non altro nei cuori degli appassionati.

Ma se il contesto è perfettamente riuscito, invece la sceneggiatura degli Avati (con Tommaso e l'insostituibile produttore Antonio) lascia quelle mancanze del pre-finale che è uno dei marchi di fabbrica della produzione horror del regista. Buchi che a volte si adattano perfettamente alla natura inconscia dei film, soprattutto ne La Casa Dalle Finestre Che Ridono, ma che in questo caso lasciano lo spettatore nella frustrazione del post. Un finale inaspettato che vorrebbe essere suggestivo e appena accennato, un po' come la mano appoggiata sull'albero più famosa del cinema italiano di genere (il colpo di genio di chiusura ancora de La Casa Dalle Finestre Che Ridono), e che qui stimola un rewind interpretativo al termine del quale c'è solo una sensazione di deludente approssimazione, ingiustificabile neanche davanti ad un'atmosfera creata ad arte. Si rimane sgomenti: davvero un crimine.


VP