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lunedì 3 ottobre 2016

Bronson (2008) by Nicolas Winding Refn

Dopo discussioni su discussioni cinematografiche, in cui amici hipster frequentatori di quartieri gentrificati mi hanno fatto due palle così con il loro cult assoluto degli anni 2000, non ho potuto fare a meno che sfoderare il mio hipsterissimo MacBook Pro e spararmi, rigorosamente in streaming, l'opera più citata del più sopravvalutato danese dai tempi di Lars Von Trier (con la differenza che quest'ultimo ha fatto pure grandi cose, prima che i postumi del Dogma non gli rovinassero, se non il cervello, quantomeno l'occhio registico). Qualche anno fa non mi sembrò chissà che gran film... e ora ribadisco il parere.

Dunque non posso che dedicare la suddetta puntata di Come Ti Stronco il Film Preferito ai colleghi cinefili con la barbetta o i baffi e i maledetti risvoltini ai pantaloni. Pretendo però un brindisi, magari in una ludoteca del Pigneto o in un caffè letterario di Kreuzberg o Copenhagen.

Alla mia e alla vostra!



Bronson (2008)
di Nicolas Winding Refn

Tom Hardy (Charles Bronson / Michael Peterson)
Kelly Adams (Irene)
Luing Andrews (Hysterical Screw)
Katy Barker (Julie)
Gordon Brown (Screw)
Amanda Burton (Charlie's Mum)
Mark Devenport (Nurse 1)
Jon House (Webber)


È un attore, è un pagliaccio, è un artista contemporaneo. Sicuramente è un violentissimo criminale inglese, coi baffoni alla John Scatman e la voglia di diventar famoso. Il mondo è una merda ed è giusto affrontarlo con piglio: chi se ne frega se si finisce in una prigione di massima sicurezza o una struttura psichiatrica imbottito di psicofarmaci a fare su e giù coi Pet Shop Boys in sottofondo. Bronson è il vero ergastolano inglese (di Luton) Michael Gordon Peterson, meglio conosciuto come Charles Bronson o Charles Salvador per le sue propensioni artistiche. Che si sposano (o per meglio dire fanno a botte) per l'appunto con l'arte del fare a botte.

Picchiatore per strada, picchiatore in prigione, sequestratore di guardie, giornalai e insegnanti d'arte, tutto per la sola voglia di stupire e quasi un'attrazione masochista per il dolore fisico. Una vita grottesca e ultraviolenta che fa al caso dell'abilità scenica di Nicolas Winding Refn. Che, prima dei vichinghi di Valhalla Rising e il noir classico rimaneggiato in salsa new wave di Drive, ci trasporta nell'iperrealismo della regia e della realtà ricreata. Un racconto teatrale che è anche un kammerspiel che fa su e giù per istituti e celle di isolamento, finché Bronson esce di prigione, per una stortura giudiziaria o ipocrisia delle istituzioni, tra un incontro clandestino a mani nude e l'altro c'è anche il tempo per l'amore e gioielli rubati da vero gentiluomo che saranno fatali.

Ma un film nervoso e anarchico come il suo protagonista, fatto di colori accesi immersi nelle ombre di spazi angusti e di un palco teatrale, che senso ha se non strizzare l'occhio alle conformi mode alternative degli anni 2000? Oltre le urla e la follia che sprigiona una sorta di genio, cosa c'è se non un estetico e pretenzioso clip di street culture, che forse vorrebbe ricreare un'atmosfera drogata kubrickiana da balletto ignorando che A Clockwork Orange è un film del '71 e sicuramente all'epoca tutto era tranne che un film conformista. Non ha neanche una geometria narrativa, neanche una forma perfetta in grado di incastonare le varie scene magistrali in una composizione artisticamente logica.

Il cult degli anni 2000 per un culto di modaioli scoppiati senza etica estetica.


VP