The Dead Don't Die (2019)
di Jim Jarmusch
Bill Murray (Chief Cliff Robertson)
Adam Driver (Officer Ronnie Peterson)
Tom Waits (Hermit Bob)
Chloë Sevigny (Officer Mindy Morrison)
Steve Buscemi (Farmer Frank Miller)
Eszter Balint (Fern)
Danny Glover (Hank Thompson)
Maya Delmont (Stella)
La rottura dei ghiacci ha portato ad uno spostamento dell'asse della Terra e questo dovrebbe legarsi all'improvviso malfunzionamento degli orologi, alle galline e agli altri animali dispersi (e che si pensa siano stati rubati da un tale Bob "l'eremita") nonché alla resurrezione di zombie che per l'occasione escono dalle tombe e terrorizzano la ridente cittadina di Centerville, abitata da quattro gatti tra cui un chief e due deputy autoironici che si aggirano con fucili in mano e i clienti di un dinner che se la vede brutta. In più c'è un convenience store mandato avanti da un giovane cinefilo con maglia di Nosferatu, un motel dove si rifugia un gruppo di turisti hipster di città (forse Cleveland?) e un dormitorio studentesco dove un bambino e due coetanee sono gli unici ad averci capito qualcosa... se si esclude l'eccentrica direttrice di una pompa funebre, dall'accento scozzese e dalla katana facile.
L'incipit di ogni possibile discorso su un'opera del genere è nel titolo originale, al solito composto a mo' di scioglilingua: The Dead Don't Die andrebbe pronunciato "dededdondai" esattamente come negli anni '80 un possibile "down by law" usciva nelle sale come Daunbailò (1986). Forse qui stiamo quasi sul territorio di Only Lovers Left Alive, con gli zombie romeriani al posto del vampirismo. Film, quello del 2013, che quantomeno di reggeva su un elogio quasi feticista verso il formato musicale analogico e una rappresentazione del Marocco e soprattutto di Detroit (la città più violenta d'America) che ha lasciato il segno.
Qui c'è solo il genere, di per sé nobile, dei morti viventi, piegato all'auto-referenzialità del mondo di Jim Jarmusch che si allontana dalla sorprendente e narrativamente geometrica profondità pop del precedente Paterson per riproporre una carnevalata tra amici (da Tom Waits a Iggy Pop, passando per il gran cast di nomi archetipici della sua filmografia) che sviliscono le peculiarità e la sacralità dello stesso.
È sfruttare la Storia del Cinema al servizio della propria divertita messa a criteri, un po' quello che Jarmusch tende a fare da Dead Man (e allora era il western, 1995) ad oggi. Con l'aggravante che in questo caso si permette anche di alzare il tiro: sfonda la quarta parete, con un escamotage del pre-finale tutto teorico e meta-filmico di chi vorrebbe prendersi anche molto sul serio.
Dovremmo ridere?
VP