Hereditary (2018)
di Ari Aster
Alex Wolff (Peter)
Gabriel Byrne (Steve)
Toni Collette (Annie)
Milly Shapiro (Charlie)
Morgan Lund (Mr. Davis)
Mallory Bechtel (Bridget)
Jake Brown (Brendan)
Ann Dowd (Joan)
Una dollhouse in realtà è una house vera e ci vive una famiglia alle prese con un lutto improvviso: angosce che si moltiplicano nei giorni successivi, tra feste di adolescenti con cannabis e birra, set reali ricostruiti in miniatura (è il lavoro della madre e il riferimento abbastanza strumentale alla dollhouse che si anima) e strane ossessioni di una figlia menomata che forse sente qualcosa celarsi oltre le mura domestiche e gli avvertimenti della natura, piccioni che si infrangono sui vetri delle scuole e altra umanità che poi si concentra in gruppi di recupero. C'è un'eredità che è un segreto, niente di fisico o materiale, ma qualcosa di pianificato e fatto di spiriti che si agitano sulle soffitte impolverate oltre l'apparente cortesia della porta accanto e la calma di un'America di provincia (Utah).
Che è la cosa che più contraddistingue questo prodotto di genere targato A24, non un'autostrada bensì una casa di produzione americana leader del neo prodotto artistico e di genere: Harmony Korine, Yorgos Lanthimos, Sofia Coppola (Bling Ring), James Franco, l'Oscar Moonlight i grandi nomi in portfolio. E questo horror gotico che parte come un Babadook statunitense, condito da Sesto Senso, salvo poi virare su qualcosa di estremamente vicino, eccetto l'ambientazione allora metropolitana e che faceva efficacemente da contraltare ad una dimensione privata, a Rosemary's Baby (1968).
Ma al di là della sapienza tecnica, dell'atmosfera comunque riuscita, all'egregia direzione degli attori, tra cui un Gabriel Byrne qui anche in veste di produttore esecutivo (e per quanto invece l'australiana Toni Collette non riesca a restituire affatto la forza cinetica e l'angoscia viscerale di Mia Farrow), dietro Hereditary non c'è il marchio di un autore, con il suo sguardo e le contraddizioni che dovrebbe portare in grembo (mai espressione come in questo caso potrebbe essere pertinente): c'è il cortista Ari Aster, qui al suo esordio nel lungo, che magari nel prossimo futuro riuscirà a imporsi come nome anche di rilievo di un buon modo di fare prodotto medio, destinato alle masse di adolescenti con i popcorn a intervallare i sospiri di tensione (Midsommar è un altro horror in produzione nel 2019), ma ad oggi non riesce ad andare oltre ciò che già conosciamo da decenni a questa parte.
E a 50 anni esatti di distanza dal modello originario, perde decisamente il confronto con quell'autore europeo (Polanski) che dalla Polonia rossa così sapientemente riuscì a portare le sue turbe sopra e sotto il suolo nordamericano.
VP