Ready Player One (2018)
di Steven Spielberg
Tye Sheridan (Parzival / Wade)
Olivia Cooke (Art3mis / Samantha)
Ben Mendelsohn (Sorrento)
Lena Waithe (Aech / Helen)
T.J. Miller (I-R0k)
Simon Pegg (Ogden Morrow)
Mark Rylance (Anorak / Halliday)
Philip Zhao (Sho)
Nel 2045 la gran parte della popolazione mondiale vive in un tecnologico inferno di rottami e case accatastate da cui si evade solo con un visore VR e tanti tokens accumulati nella realtà virtuale: si chiama Oasis ed è una Pandora infinita che lascia campo a ogni immaginazione, tra scalate dell'Everest con Batman e corse automobilistiche con King Kong ad impedirne il traguardo. L'avatar ha a disposizione ogni modello della cultura pop del XX secolo e l'effetto vintage è sempre dietro l'angolo: look da Simon LeBon, discoteche del sabato sera e intrusioni sui set dei film celebri, come l'Overlook Hotel, quello vero, cioè l'unica parte davvero impressionante del film (un po' come in Atomica Bionda quando si entrava nella sala di Alexanderplatz dove in proiezione c'era Tarkovskij), per trovare una delle tre chiavi disseminate dal creatore di Oasis (che intanto è morto) come Easter Egg per diventare i grandi magnati della galassia. Biblioteche di ricordi con maggiordomi britannici che scandagliano ogni passo del vissuto del Zuckerberg che verrà, quello che ancor di più riesce a portare il virtuale ad estensione del reale, solo che la realtà è, per l'appunto, "reale" e il buon senso è abbracciare sicuramente le nuove tecnologie ma anche mettere qualche paletto per non dimenticare di abbracciarsi nella realtà. Che è reale.
Insomma è la retorica progressista di Spielberg, mai come in questo caso in grande spolvero. Edulcorata ed edulcorante in un universo fracassone e didascalico, in cui il feticismo citazionista (mode, videogiochi, personaggi soprattutto targati Dreamworks) è l'unità di misura del fascino di una fantascienza post-umanista che va di pari passo con lo sviluppo tecnologico iperbolico di questi decenni. Il calore di E.T. e degli incontri del terzo tipo non si sente più: è tutto freddo ed etereo, semi-distopico ma anche divertito per il ludo di bimbi e pre-adolescenti con smartphone rigorosamente in mano.
Per un amante della fantascienza, uno che ha voluto bene ad Arthur Clarke, Asimov e Frank Herbert, è tutto noioso: se il mondo raffigurato è aperto ad ogni parto dell'immaginazione, senza un'architettura precisa, dei paletti, degli infissi narrativi, allora il risultato non può che risultare dispersivo. È come Avatar, che quantomeno ricreava un proprio universo autoreferenziale scollegato da ogni nostalgia per Atari 2600 e celebrazioni spiattellate nel modo meno intrigante possibile dei tempi dell'analogico.
Ma forse è l'atteggiamento passatista di un romantico isolato (il film incassa bene), che preferirebbe che Spielberg continuasse con il suo lavoro neoclassico sulla Storia e sull'inchiesta della Storia (Lincoln, Il Ponte Delle Spie, The Post), che è ciò che gli viene meglio anche grazie alle sue diciamo infinite possibilità produttive... e lasciasse ai registi dell'oggi, che forse è il domani, la possibilità di raccontare il 3000 e gli altri mondi.
Non ci si aspettava 2001, odissea di quel '68 che parafrasando Antonello Venditti era "ancora lungo da venire e troppo breve da dimenticare", però...
VP