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sabato 14 aprile 2018

Love (2015) by Gaspar Noé

Torna dopo tempo immemore un post della rubrica CULT, con un film che ha fatto discutere negli ultimi anni. Un regista ardito e ambizioso, nato in Argentina e consacratosi in Francia tra red carpet festivalieri e dibattiti extra-visione, che insieme ad Ulrich Seidl, Yorgos Lanthimos e altri ha rappresentato nel bene e nel male l'avanguardia della provocazione nel Cinema di questi anni '10 del XXI secolo.

Ecco a voi la recensione della sua opera più discussa (considerata un capolavoro da Positif e una bufala da Cahiers Du Cinéma), dedicato al caro Nicola, ché me l'ha richiesta tanti mesi or sono.


Love (2015)
di Gaspar Noé

Aomi Muyock (Electra)
Karl Glusman (Murphy)
Klara Kristin (Omi)
Ugo Fox (Gaspar)
Juan Saavedra (Julio)
Gaspar Noé (Noe as Aron Pages)
Isabelle Nicou (Nora)
Benoît Debie (Yuyo)


Il sesso è un punto di incontro e uno sfogo delle paure e delle incertezze. Un americano a Parigi è il deus ex machina della sessualità maschile, un cazzo che in quanto tale non pensa, e che da una giornata al parco a discutere di Cinema con una sconosciuta (che non conosce Kubrick e 2001) si ritrova a letto con quest'ultima, al principio di una relazione frammentaria e malata, fatta di ricordi, di immagini patinate di feste e di lenzuola rosse, pose contorte e pensieri sparati come sperma sulla telecamera e sul soffitto vuoto. Ma tutto cambia quando entra l'altra e l'altra è una ragazza della porta accanto, spoglia di moralismo che non sia un misto di vegan e new age: biondina candida e global, nemesi della mora tossica, maledetta e passionale. Personaggio apollineo da cui nasce il figlio del domani, la responsabilità procrastinata dalle droghe e dalle emozioni piatte che però si ritroverà lì, sullo stipite della porta del bagno ed entrerà nella vasca, covo delle ossessioni del passato e dell'incertezza, quella sì davvero vertiginosa e sorda, del futuro.

Gaspar Noé è quello di Irréversible, che nel 2002 portò a Cannes lo stupro di Monica Bellucci. Regista cinefilo che si ferma alla superficie delle cose, che cade inesorabilmente quando sopravvaluta se stesso e si addentra nei meandri delle acque profonde che gli sono precluse. Love è quasi una versione europea di The Doom Generation, un Gregg Araki individualista, anti-comunitario e assolutamente autoreferenziale (una tridimensionalità scenicamente inutile tanto da essere invadente eppure irrinunciabile come metalinguaggio) che celebra la morte del ruolo sociale nell'intimo dei personaggi: macchia lo schermo di superfici gialle e contrastate incartandosi nelle ossessioni maschili adolescenziali e post-adolescenziali legate al piacere e all'estasi. Tutto il contrario della realtà, tutto estetica e una volta tanto nella filmografia del regista la presa di coscienza che non ci possa essere nulla di più ambizioso di ciò.

Il film in questo senso si carica di un immaginario potente e funziona proprio per le superfici percorse. Non c'è nulla oltre il piatto.


VP