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mercoledì 27 novembre 2019

L'Ufficiale e la Spia (2019) by Roman Polanski


J'Accuse (2019)
di Roman Polanski

Jean Dujardin (Colonel Georges Picquart)
Louis Garrel (Alfred Dreyfus)
Emmanuelle Seigner (Pauline Monnier)
Grégory Gadebois (Henry)
Hervé Pierre (Général Gonse)
Wladimir Yordanoff (Général Mercier)
Didier Sandre (Général Boisdeffre)
Melvil Poupaud (Maître Labori)


Una serie di quadri che rimandano alla pittura dell'epoca in cui si svolge il terribile affaire e alle prime produzioni cinematografiche targate Georges Méliès, che fece del suo L'Affaire Dreyfus, 1899, dei veri e propri instant films (9 in tutto) che interpretavano con la logica dei quadri in movimento ciò che accadeva in seno alla Francia. Un tema che si ricollega come non mai all'oggi, nell'epoca della lotta per i diritti che dovrebbero superare le logiche e i sentimenti nazionali: cosa significa essere accusati di Alto Tradimento alla Patria, soprattutto se le accuse si rivelano infondate e la verità metterebbe in imbarazzo istituzioni militari che sono difensori e funzionarie dello stesso concetto di nazione?

Lo sviscera Roman Polanski che dell'essere perseguitati ha fatto un marchio di fabbrica non solo della filmografia quale artista e ebreo, ma anche della sua vita privata. L'antisemitismo è il motore che porta all'ingiustizia e ne è affetto anche l'antieroe del film, il Colonnello George Picquart, che ad Alfred Dreyfus confida di separare i doveri della sua carica (rassicurandolo della non discriminazione effettiva) dai suoi sentimenti razziali. Picquart che scopre che la realtà non è quella che sembra, che c'è qualcosa di losco e camuffato nelle calligrafie e nelle gerarchie dell'Arma e allora quell'ebreo che gridò di fronte alla spada spezzata e alla cerimonia di accusa di Alto Tradimento, per informazioni segrete offerte al nemico tedesco (nel post-guerra franco-prussiana), aveva ragione: "sono innocente!". Un j'accuse che risuona nelle aule della burocrazia e del tribunale parigino, che rimbomba da lontano dallo scoglio della Guyana francese (simbolo dell'Europa che proprio in quegli anni si spartiva l'Africa, con una rapacità di cui ancora paghiamo tutti le conseguenze e le contraddizioni irrisolte e forse irrisolvibili) in cui viene confinato e con i piedi legati a letto come forma di tortura.

La luce che filtra nelle stanze chiuse ha la poesia di un quadro di Renoir, i cafè e le strade esterne hanno il candore sfumato dell'Impressionismo sociale di Manet: la fotografia a firma Pawel Edelman è un capolavoro assoluto. Insieme alla recitazione e alla direzione degli attori, alla cura dei dettagli e alla bellezza incredibile dei costumi, all'importanza anche simbolica del fatto (illustrato come meglio non si potrebbe), è la cosa migliore di un film che invece difetta nella risoluzione del caso in sede di scrittura. Da metà fino alla fine la sceneggiatura è slabbrata e la sensazione è che il film finisca troppo in fretta affidandosi alle didascalie quando invece vorremmo che Polanski ci illustrasse il post-affaire e i suoi risvolti sociali e politici e anche il cambiamento delle dinamiche interne della politica e del mondo militare. La prima parte invece è perfetta, imprigionata negli edifici che contano della burocrazia, e parla del presente molto più di altri film esplicitamente critici verso un'Europa divisa tra idealismo dei principi della nobiltà e corruzione dei rapporti che crea ingiustizie. Uno spettacolo lento e rivelatore.


VP