Doctor Sleep (2019)
di Mike Flanagan
Rebecca Ferguson (Rose the Hat)
Ewan McGregor (Danny Torrance)
Jacob Tremblay (Bradley Trevor)
Carel Struycken (Grampa Flick)
Emily Alyn Lind (Snakebite Andi)
Cliff Curtis (Billy Freeman)
Zahn McClarnon (Crow Daddy)
Chelsea Talmadge (Deenie)
La Warner si affida a uno dei nomi di punta dell'horror contemporaneo per l'operazione più improbabile dopo quella sorprendentemente positiva del seguito di Blade Runner a opera di Denis Villeneuve. Solo che se il film del 1982 di Ridley Scott era un imperfetto connubio di fantascienza dickiana e noir anni '40 anche proprio nella sua varietà di formati e lunghezze (da quella standard originale voluta dalla produzione di allora ai vari Director's e Final Cut successivi), cristallizzata dall'immaginario cyberpunk e dalle tendenze estetico-pubblicitarie degli anni '80, qui ci troviamo davanti all'eredità del più grande formale americano del Novecento.
Cimentarsi con qualcosa che è stata di Kubrick è ancora più impossibile del fare un seguito di un film iconico, perché qui non ci troviamo davanti solo ad un'icona di genere bensì ad un monumento inossidabile della New Hollywood a cavallo degli anni '70 e '80. Fa venire in mente quello che fu 2010 L'Anno Del Contatto di Peter Hyams (1984), sequel del più rivoluzionario film del suo genere e forse dell'intera Storia della Settima Arte, oppure A.I. di Spielberg, che riprese un progetto mai eseguito del genio del Bronx. Si rischia il film medio, perché un regista, per quanto sulla cresta dell'onda, dà comunque tutto se stesso nell'onorare il confronto, ma alla fine è ben conscio che il suo è un destino segnato: questi film non sono mai brutti ma sembrano auto-condannarsi dal principio alla mediocrità.
Certo, qui Mike Flanagan, che si trova a suo agio tra spiriti e possessioni da horror jumpscare ma fatto meglio rispetto alla roba firmata James Wan tipo The Conjuring et similia, ha come base di partenza un testo di Stephen King. Che proprio nel rapporto con Kubrick ha un passato burrascoso: il suo Shining, scritto nel 1977, fu adattato dal regista prediligendo le caratteristiche filmiche e la sua tendenza alla messa in scena rigorosa scatenando le ire del Re. La verità è che il romanzo non era tra i migliori del genio del Maine e il film ne estrapolò gli ingredienti per farne qualcosa di unico. Shining (1980) è il caso più emblematico di Cinema che supera nettamente la Letteratura. E anche un portale di suggestioni infinite proprio per la sua presenza nel cult fantascientifico che arriverà nelle sale due anni dopo. Una presenza involontaria.
Infatti, per chi ancora non lo sapesse, la sequenza iniziale di Shining, con l'inquadratura aerea della macchina di Jack Torrance che si destreggia tra le colline verso l'Overlook Hotel, fu usata dalla produzione di Blade Runner come finale rimaneggiato di quest'ultimo e che vedeva la fuga verso le colonie extramondo di Deckard insieme all'amata replicante. Un'inquadratura che apre anche questo Doctor Sleep e che avrebbe dato a Flanagan l'opportunità di innescare un nuovo girotondo di suggestioni da teoria metafilmica: inserire dei simil-protagonisti di Blade Runner, magari conciati solo allo stesso modo, sullo sfondo, ad arricchire l'immagine e il sottotesto. Flanagan non c'ha pensato e Doctor Sleep prende fin da subito la sua forma.
Che è quella di un racconto tipicamente kinghiano e infatti lo scrittore ha benedetto il risultato, cosa che dal punto di vista cinematografico non è sempre un elemento positivo, ma tant'è... Ritroviamo il bambino di Shining, alle prese con il post inseguimento nel labirinto, il rapporto ancora morboso e inquieto con la mamma, le apparizioni dei fantasmi che non danno tregua, gli incontri con l'anziano compagno di "luccicanza", e in parallelo seguiamo le gesta di una setta di simil-vampiri che si nutrono delle paure e dei dolori di specifici soggetti, soprattutto bambini, che vengono annusati sotto forma di vapori che escono dalla bocca. C'è una bambina afro che di vapore ne avrebbe tanto e anche di luccicanza e infatti rintraccia Danny Torrance, che nel frattempo negli anni 2010 è diventato un adulto alcolista e convive ancora con le presenze che "a volte ritornano".
E a volte ritornano anche i simil-vampiri che chiaramente interferiscono per mano di una bellissima "cappellaia magica" (la stupenda svedese Rebecca Ferguson) in un incrocio di piani onirici e mentali (ricordi personali sotto forma di fascicoli catalogati in biblioteche) che saltano continuamente. La dimensione interiore prende il sopravvento su quella reale e le citazioni del primo Shining e della saga della Torre Nera si sprecano. Si parla persino di "ka" che nel gergo dell'epopea kinghiana sul pistolero Roland Deschain rappresenta il corso del destino.
Così il film scorre lentamente e con lo spettatore in difficoltà nell'immedesimarsi nel contesto narrato e descritto. Le geometrie narrative e stilistiche di Kubrick sono del tutto assenti, il ritmo compassato è irregolare: Doctor Sleep sembra avere coscienza della sua natura di prodotto medio legato a Stephen King. Finché Flanagan non decide, aiutato dall'andamento del romanzo di partenza, di tornare all'Overlook, risvegliarlo e con esso ingranare la marcia della messa in scena ingessata e cerebrale, mentre i protagonisti si avventurano nei meandri di un luogo maledetto e abbandonato e che mano a mano riprende vita con il suo bancone bar, la "REDRUM", il salone da ballo e la gran festa.
Flanagan prova a spostarsi da King a Kubrick. Ci riesce? In parte, la sensazione di tornare a quei corridoi perfettamente ricreati è similare a quando rincontrammo Rachel (o meglio la sua copia) della Tyrell Corporation in Blade Runner 2049.
Ma il modello originario è troppo alto e allo stesso tempo è impossibile slegarsi da esso, trovare una possibile indipendenza anche proprio come prodotto commerciale. Le emozioni forti, che si nutrono di tutto l'immaginario che in ben quattro decadi abbiamo inglobato da parte di due autori magnifici, l'uno letterario, l'altro cinematografico, non sono abbastanza per salvare questo sequel dal risultato medio. McGregor seppur perfettamente in parte non è Jack Nicholson, le ambientazioni varie non restituiscono la stessa familiarità scenografica, con l'orrore che prendeva il sopravvento ad ogni minima variazione, talvolta solo accennata e non mostrata chiaramente come un po' tutto qui, il disordine mentale non è malsano ed evidentemente scollegato dal Bene superiore.
Il labirinto non è più metaforico: pare formato da linee dritte che sappiamo già dove andranno a finire.
VP