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venerdì 4 gennaio 2019

Suspiria (2018) by Luca Guadagnino


Suspiria (2018)
di Luca Guadagnino

Dakota Johnson (Susie Bannion)
Tilda Swinton (Mme Blanc / Dr. Josef Klemperer / Helena Markos)
Doris Hick (Frau Sesame)
Malgorzata Bela (Susie's Mother / Death)
Chloë Grace Moretz (Patricia)
Angela Winkler (Miss Tanner)
Vanda Capriolo (Alberta)


C'è un lungo periodo in questo Suspiria, su per giù tra i primi e gli ultimi 30 minuti di film (in pratica per un'ora e mezza abbondante), in cui sembra di trovarci di fronte al miracolo: quello di un autore di cui ancora non capiamo la cifra stilistica e cosa voglia davvero dare all'industria e all'arte cinematografica, che azzecca ogni scelta, inquadratura e movimento di macchina. Tanto che il dubbio pregiudiziale su cosa abbia spinto il regista di una roba come Call Me By Your Name a fare il remake di un film mitico del cinema di genere italiano si allontana sempre più e ci si prepara allo squillo di trombe.

Ma andiamo con ordine, cosa fa Guadagnino in questo suo primo, ambizioso, horror? Prende la struttura, i personaggi e l'ambientazione di uno dei grandi prodotti di un'epoca barocca del cinema italiano, quella trainata da Dario Argento insieme a Lucio Fulci e molti altri e che trova nel duo Suspiria (1977) e Inferno (1980) le vette di quel modo di produrre, e li vira al gotico. Non c'è più la scuola di ballo di Friburgo, dagli interni art déco e i pavoni di cristallo, le mura rosse, i soffitti alti e le impiccagioni coreografiche con sangue color salmone che scorre a catinella. Qui c'è la Berlino Ovest sconvolta dalle gesta della banda Baader Meinhof e il palazzo della scuola di ballo è tutto il contrario di una magione: è un dormitorio di marmo scuro scarno e spettrale e che si affaccia sulla via del Muro.

Non ci sono pianisti ciechi con cani addomesticati, non ci sono ballerine tenere dallo sguardo innocente (qui sono tutti molto più consapevoli), la new entry americana ha lo spirito forte e competitivo di Dakota Johnson, Miss Tanner non ha il volto sadico istriano dell'ex bellezza e mito del cinema italiano Alida Valli, non c'è Miguel Bosé o altri uomini che non siano un paio di poliziotti "mal attrezzati" e il Dottor Kemperer sotto cui si cela Tilda Swinton, la compagna del regista che qui si fa in tre.

Ma al di là della storia delle madri, dei libri ritrovati (che è più un prestito da Inferno che non dal vero predecessore), delle ossessioni delle ragazze e delle stregonerie c'è un'ambientazione che funziona davvero, una Berlino divisa e sempre piovosa, quando non innevata, una luce pallida che si riflette sui volti severi e competitivi di alunne e direttrici. E non solo... l'indagine sul mistero si smarca dalle tipiche tristissime scene argentiane in cui il mentore/guida illuminato di esoterismo indirizzava la protagonista sulla giusta strada: il passaggio è oliato e si incunea a dovere nel ritmo della narrazione. Guadagnino usa i dolly, i carrelli orizzontali fulminei e il montaggio alternato per sottolineare il legame tra danza e uccisioni. Si pensa e si spera, che il finale quantomeno regga il peso della tecnica sopraffina e del concetto, la consapevolezza, la padronanza del genere.

E qui puntualmente casca l'asino... perché Suspiria, da ottimo remake di un prodotto del cinema italiano che fu, diventa di colpo il caso esemplare di come non essere dei grandi registi. Per fare un horror come si deve (e il genere, insieme alla Fantascienza, è quello che più di tutti si presta a interpretazioni anche politiche dagli Ultracorpi a Carpenter, basta però non caricarlo di supposti orpelli autoriali extra-narrativi) la regola primaria è prendere delle decisioni assolute, senza tentennamenti, ben consci di ciò che si sta facendo e del perché lo si sta facendo. E qui non è tanto il finale ingiustificato e insoddisfacente (d'altronde neanche quello di Dario Argento lo era, che però aveva il buon gusto di non ammorbare, spingere su una catarsi distruttiva e contenersi nell'ora e mezza complessiva di film) quanto la dimensione spirituale e affettiva dell'opera: dai richiami iniziali, tramite un quadro appeso alla parete, al ruolo della madre, che tutti può sostituire ma che è di per sé insostituibile, al cuore scolpito dall'altro lato del Muro che riporta ai drammi della Shoah... già i riferimenti alla RAF sono troppo, comunque ben amalgamati alla narrazione, ma questi due fattori dilatano le ambizioni di un film che diventa una sorta di prodotto di genere arricchito di ideologia di cartapesta.

Al di fuori della tecnica dimostrata, del budget giustamente esibito e delle scelte di ambientazione c'è tutto attorno un rotolo di carta stagnola fatta di segni ed emozioni che si vorrebbero autentici per risultare infine banali, fuorvianti e anche di una piattezza volgare. Come in Call Me By Your Name l'autore si prende la sgradevolissima libertà di guidare lo spettatore alla comprensione dell'opera tramite un dialogo tra due personaggi. Spiegazione che invece, soprattutto in un horror d'autore, deve essere sedimentata all'interno del corpo narrativo.

E allora ci si ricorda che Luca Guadagnino è stato il regista non solo del film citato in precedenza, bensì anche di Melissa P. e altre roba che non fanno di lui un grande, come forse invece gli americani e chi rimane colpito dal fascino poliglotta dei suoi film, anche qui ostentatissimo (si parla tedesco, inglese, francese a turno così, senza un motivo razionale vero e giustificabile), vorrebbero convincerci... chissà perché poi peraltro, forse per i rimandi ebraici sempre presenti. A pensar male si fa peccato... peccato che sarebbe bastato in sede di montaggio tagliare quei 20-25-30 minuti di superfluo, per pensare stavolta bene.


VP