Manbiki Kazoku (2018)
di Hirokazu Koreeda
Lily Franky (Osamu Shibata)
Sakura Andô (Nobuyo Shibata)
Mayu Matsuoka (Aki Shibata)
Jyo Kairi (Shota Shibata)
Miyu Sasaki (Yuri)
Sôsuke Ikematsu (4 ban-san)
Yûki Yamada
Moemi Katayama
Tante persone sotto uno stesso tetto sono automaticamente una famiglia? E una bambina abbandonata in uno stabile è giusto che venga tolta dai pericoli? Tolta da estranei, s'intende... ed è giusto rubare nei negozi o nei supermercati quando non si ha quasi niente, forse ad eccezione di quelle imprese che sono fallite o quantomeno sono in difficoltà, giusto per condividere uno stesso dolore, quello delle persone vere e non solo delle cose sottratte. Il dolore di un passato che ha lacerato le anime, passato che tornerà inevitabilmente. Dolore e passato che creano una coscienza collettiva che non coincide con le regole e la morale comune della società tutta.
Il film vincitore della Palma D'Oro a Cannes 2018 parla di tutto questo e lo fa con semplici gesti, semplici inquadrature e con una storia talmente semplice che a metà film sembra già aver detto tutto. E invece non è così... anzi, proprio da quando la bambina (una sorta di piccola, graziosa Kaspar Hauser del Sol Levante) dalle braccia tumefate viene accolta da una sorta di altrettanto piccola comune (e inizia a svelarsi il vero mistero che intreccia i rapporti dei sei personaggi attorno a cui ruota l'opera), il film supera le aspettative dello spettatore e lo trascina in un vortice di domande morali e narrative che ne costituiscono il valore profondamente filosofico.
Un'opera immersa in sfondi normali e proprio per questo inquietanti, abitati da gente dichiaratamente distante dalla normalità, che vuole sentire l'affetto con gli abbracci e invece è relegata ai margini di una società forse razionalmente giusta ma freddissima. Koreeda ha una capacità di sintesi sopraffina, sofistica con i suoi dubbi d'artista una falsa semplicità dello sguardo quasi neorealista, con pochi tocchi restituisce un tratteggio dei caratteri completo e a tutto tondo come un Ozu contemporaneo.
È l'opera più bella forse degli ultimi anni, sicuramente del 2018. Quasi sembrerebbe riduttivo definirlo un capolavoro assoluto, ma tant'è...
VP