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sabato 8 dicembre 2018

Suicide Club (2001) by Sion Sono

È sempre meraviglioso quando qualcuno ti propone un buon regista che non conoscevi, chissà come mai, visto che è così famoso, e in un innocuo ozio notturno alla domanda "dimmi un film che dovrei vedere" una ragazza alta come un elfo e dalla personalità graziosa e curiosissima ti dà una risposta mai così convincente ed esaustiva. Con un cult movie dei primi anni 2000, la cui recensione non può che essere dedicata a lei.

A G. di Zalib.


Jisatsu Sâkuru (2001)
di Sion Sono

Ryo Ishibashi (Detective Toshiharu Kuroda)
Masatoshi Nagase (Detective Shibusawa)
Mai Hosho (Nurse Atsuko Sawada)
Tamao Satô (Nurse Yôko Kawaguchi)
Takashi Nomura (Security Guard Jirô)
Rolly (Muneo 'Genesis' Suzuki)
Joshua (slave boy)
Masato Tsujioka (Genesis' gang)


Un carrello orizzontale a riprendere la massa di persone che affolla una stazione della metro di Tokyo: ci sono tante giovanissime ragazze in uniforme, che da un momento all'altro si prendono tutte per mano e si gettano sotto la banchina all'arrivo del treno. In una clinica viene ritrovata una borsa bianca con all'interno un rotolone di pelle umana, una fettuccia legata a mo' di catena con tante tonalità diverse (ergo appartenente a più persone) e la polizia si ritrova nel caos. In tutto il Giappone è un via vai di telefonate ambigue che spingerebbero al suicidio, quasi tutti accettano il gioco, che sembrerebbe creato da una gang che su un sito Internet rappresenta le future vittime a forma di pallini bianchi o rossi (e ci arriva una hacker del web 1.0 che non esita a fornire supporto alla polizia), ma forse non è così. Forse tutto nasce dai brani pop melodici di un banda di ragazzini in TV o forse no. Forse tutto nasce dalla sensibilità di ognuno di noi. Sulla banchina di una nuova metro che passa, una presa che probabilmente salva una vita, ma che nel Giappone dei rapporti sociali chiusissimi è anche se non soprattutto un disturbo della privacy.

E proprio così l'horror di Sion Sono (artista visuale, ma anche poeta, prestato al cinema) è un trionfo di indizi che portano a strade morte, che sembrano risolvere enigmi alla base del plot salvo poi lasciare aperta la porta del dubbio nello spettatore che rimane in uno stato di confusione materiale, trovando un appoggio concreto esclusivamente nell'interpretazione sociologica e spirituale del film. Un'opera del genere, incentrata sugli elementi suggeriti e su un'angoscia che nasce tutta dalla rappresentazione degli ambienti, non può che essere debole sul piano della sceneggiatura: buchetti narrativi qua e la che non inficiano sulla forza della messa in scena e sulle ossessioni figlie di una società malata che strozzano ogni tipo di soluzione catartica e di sollievo per un futuro possibile.

Il gioco di Sion Sono si svolge esclusivamente sul piano dello studio dell'immagine e sulla vertigine estetica e morale. Citato in film occidentali tipo anche Hostel di Eli Roth, ha fatto scuola negli anni duemila.


VP