Sulla Mia Pelle (2018)
di Alessio Cremonini
Alessandro Borghi (Stefano Cucchi)
Max Tortora (Giovanni Cucchi)
Milvia Marigliano (Rita Calore)
Jasmine Trinca (Ilaria Cucchi)
Elisa Casavecchia (Giulia)
Aurora Casavecchia (Giulia)
Mauro Conte (carabiniere arresto)
Tiziano Floreani (Luca)
È sicuramente il film del momento, quello che ha risvegliato nel Cinema e nella TV italiana un inaspettato desiderio di denuncia civile, con organizzazioni in grande massa di proiezioni pubbliche clandestine che uniscono la modernità della piattaforma Netflix (aggirata con grandi lamentele di produttori, Occhipinti e Lucky Red, e regista stesso, ma anche con il beneplacito della vera sorella della vittima) ad un clima politico e ideologico che non si ricorda dagli anni '70. È un film importante e questo va innanzitutto specificato: insieme a Diaz e ad altre opere ad esempio di Marco Tullio Giordana (da I Cento Passi a Romanzo Di una Strage) si interroga su che razza di paese sia davvero l'Italia, una nazione che vorrebbe dirsi Occidentale ed europea nel rispetto dei diritti fondamentali di base salvo poi mostrare buchi neri profondissimi, zone in cui la burocrazia ingessata incontra il crimine silenzioso delle mafie e degli appalti e le forze dell'ordine rispolverano modi di un altro paese che fu nel primo Novecento.
Nell'ottobre del 2009 a Tor Pignattara, Roma, due ragazzi stanno in macchina a parlare di donne da conquistare con piatti di melanzane e quant'altro. Arriva una pattuglia e li fa scendere: ci sono svariati grammi di fumo e cocaina, l'arresto è in flagranza. Il film segue chi dei due alla fine di 6 giorni lunghi come una Via Crucis di omertà istituzionale all'interno dei centri di detenzione (con domande buffe di secondini, agenti e medici) avrà la peggio: l'epilettico 31enne Stefano Cucchi, che purtroppo quella sera non se ne è stato in famiglia a mangiare e dormire, già passato nei centri di recupero per tossicodipendenti, si procura di punto in bianco un ematoma facciale dopo una capatina forzata in una stanza chiusa: cosa sia davvero successo all'interno di quella stanza ancora è un mistero (lui parla di una caduta dalle scale, ma a volte anche di cinghiate da parte di chi lo teneva). Fatto sta che si presenta in aula di tribunale in condizioni a dir poco pietose (e dire che il pomeriggio dell'arresto era appena stato in palestra) e infine dopo un paio di celle che dire scomode è un eufemismo conoscerà la sua ultima destinazione: la stanza di detenzione dell'Ospedale Pertini... come finirà già lo sappiamo.
E al netto delle incongruenze caratteriali di Stefano, la sua reticenza al farsi aiutare, il suo prendere atto della propria posizione senza minimamente avere o sentire fiducia nelle istituzioni che lo tengono in custodia, questa triste pagina di cronaca, al pari di quella che poco tempo prima colpì Federico Aldovrandi, accaduta proprio a un passo dalle nostre abitazioni colpisce per la sensazione di malessere civile e di instabilità sociale che provoca: se non è vero che tutti potremmo essere degli Stefano Cucchi, ché al di là del consumo personale probabilmente era solito fare creste con la droga, purtroppo invece è reale il pericolo a cui ognuno di noi può andare incontro per un piccolo o grande errore che sia: c'è una ghigliottina di violenza istituzionale e fermezza burocratica (i genitori di Stefano a momenti neanche potevano vedere il cadavere del figlio appena morto) ad attenderci e neanche con tutto l'acredine possibile verso le istituzioni ce lo immagineremmo mai.
Un braccio della morte che si fonda sull'ipocrisia e l'imbarazzo della messa in discussione del ruolo delle forze dell'ordine, dove non ci sono urla udibili e brutalità esplicitamente inferte come nella Turchia di Fuga Di Mezzanotte (Midnight Express, 1978) e dove l'ideale umano è annullato dal consueto. In questo caso l'interpretazione di Alessandro Borghi, dimagrito considerevolmente, è ammirevole, così come tutte le scene in cui Cucchi rimane solo con se stesso e rifiuta quasi ogni contatto con ciò che lo ha costretto in quella cella, per di più steso in orizzontale. Il regista Cremonini gioca sapientemente di fuoricampo facendo la scelta migliore possibile per la scena fatidica della stanza punto interrogativo del caso.
Purtroppo però lo stesso Cremonini non è uno Steve McQueen, ovvero il videoartista britannico che per tracciare il profilo di Bobby Sands (il terrorista dell'IRA morto nell'81 in Irlanda Del Nord) partiva dallo studio dell'immagine: Sulla Mia Pelle non è Hunger e, come ci si poteva aspettare, esprime il bisogno di divulgare la storia di Cucchi ad ogni tipo di spettatore possibile. Il film non tradisce la sua natura televisiva, soprattutto quando in gioco ci sono i genitori del protagonista: le interpretazioni di Max Tortora (il padre) e Jasmine Trinca (la sorella Ilaria Cucchi) si collocano perfettamente nello standard piatto della fiction nazionale.
Se è ineccepibile sul piano informativo e del rapporto con i fascicoli giudiziari del caso, il risultato è molto distante da ciò che il Cinema dovrebbe smuovere, ovvero un'angoscia data dalle capacità espressive del mezzo e dalla deformazione intima di una realtà che viene raggiunta solo attraverso una toppa aperta che illumina i lividi. Perde la partita anche con Diaz, che era assai meno onesto come prodotto iper-reale, nel suo rapporto con l'etica del racconto e la visione della Storia, ma che nella sua natura talvolta grossolana mostrava lampi di educazione registica cristallina. Comunque è già qualcosa.
VP