Phantom Thread (2017)
di Paul Thomas Anderson
Daniel Day-Lewis (Reynolds Woodcock)
Vicky Krieps (Alma)
Lesley Manville (Cyril)
Sue Clark (Biddy)
Joan Brown (Nana)
Harriet Leitch (Pippa)
Dinah Nicholson (Elsa)
Julie Duck (Irma)
La cura e l'inflessibile meticolosità sono il segreto del successo di un austero stilista inglese, uno per cui tutte le donne vanno in visibilio per l'ineccepibile qualità dei materiali e delle forme, tanto da desiderare persino di esserne sepolte con le sue creazioni. Un uomo severo, costante, dominato dall'aplomb inglese, attento a ogni rumore e alla grazia delle posate lasciate con cura sul piatto, dedito senza soste al lavoro e ai particolari che fanno la differenza. Ma la vita è un'altra cosa, è fatta di sorrisi, di imprecisioni e di una bellezza colta nel meno nobile degli ambienti: una fuga in campagna, un rifornimento alla pompa di benzina e poi una colazione abbondante servita da un'immigrata che ha i lineamenti e anche pancetta perfetta per esaltare l'estro del maestro, che prende immediatamente le misure insieme all'arcigna sorella, titolare dell'atelier insieme a lui. Nasce la storia d'amore e ossessione fatta di abiti per VIP, reali belghe e funghi velenosi, cotti e serviti appositamente per tornare ad una dimensione inerme e mansueta, prima del gran ritorno alla ribalta, alla forza fisica e al benessere.
Il mondo della moda, insieme alla filosofia, è uno dei temi più difficili da portare sul grande schermo. Paul Thomas Anderson (classe 1970) lo fa in grande stile, con un film elegantissimo, pallido e caldo come la luce filtrata dalle finestre di un'Inghilterra del dopoguerra laboriosa e lucida. La cosa incredibile di tutti i film del regista californiano è nella gestione dei tempi del racconto, nelle punte emotive dominate da una tensione dei rapporti umani (e in questo caso evidenziate dai rintocchi superbi della colonna sonora firmata Jonny Greenwood) che cadono con precisa puntualità. Racconto che ha una forma sempre molto allungata; tende a sfilacciarsi nei finali un po' troppo tirati che sforano la forma ormai sempre più compatta della materia filmica hollywoodiana. La cifra e la metrica dell'autore è riconoscibile dal suo primo film.
Ma se le opere maggiori si lasciavano trascinare anche e soprattutto dall'epica dei periodi storici, catturati con precisione, e che esaltavano il rapporto ambiguo del regista con la genesi (la corsa all'oro nero de Il Petroliere, There Will Be Blood), lo sviluppo (la pornografia degli anni '70 in Boogie Nights) e le degenerazioni spirituali (il Ron Hubbard di The Master) del capitalismo statunitense, stavolta la società britannica è sfondo di un melodramma cerebrale d'altri tempi che isola i personaggi nelle proprie ossessioni come un Bergman d'annata, offrendo agli interpreti la piattaforma necessaria per prove maiuscole in grado perfino di oscurare la profondità e la grazia patologica della pellicola stessa.
VP