The House That Jack Built (2018)
di Lars von Trier
Matt Dillon (Jack)
Bruno Ganz (Verge)
Uma Thurman (lady 1)
Siobhan Fallon Hogan (lady 2)
Sofie Gråbøl (lady 3)
Riley Keough (Simple)
Jeremy Davies (Al)
Jack McKenzie (Sonny)
Ma che razza di problemi ha Lars von Trier? Questo nordico che una volta era un grandissimo regista, capace di giocare con i generi abilmente, sfornando opere come The Kingdom, che si rifaceva ai medical statunitensi virati in giallo/nero, o come L'Elemento Del Crimine, con i suoi bui e la struttura da thriller esistenziale, e che oggi a 20 anni da Dogma 95 continua a cimentarsi in opere superflue, didascaliche e pretenziose prodotte a mo' di contenitori delle tormenti personali. La violenza, la pornografia, una certa morbosità verso il Nazismo. Perché l'autore di un capolavoro come Le Onde Del Destino è finito così?
Le questioni sono all'ordine del giorno, soprattutto perché rimane il problema più grande: il Cinema. Anche ammettendo che il nostro voglia scandalizzare a tutti i costi, e forse ci riesce visto che questo The House That Jack Built ancora non ha trovato distribuzione in Italia e a Cannes alcuni critici hanno disertato la sala a metà proiezione per la, a loro dire, "violenza insopportabile" (Pino Farinotti ne ha stilato giù un j'accuse pesante), i suoi film contemporanei non hanno niente, ma davvero niente, di scandaloso. E stupisce che a creare questo hype da evento trasgressivo siano soprattutto i francesi, ovvero coloro che hanno visto ultimamente sfornare un personaggetto non da poco come Pascal Laugier, ma anche ad esempio Gaspar Noé, se vogliamo rimanere nel pretestuoso costante.
Detto questo The House That Jack Built non è un noioso abominio come le due parti di Nynphomaniac o una roba new age grossolana e dall'estetica iperrealista come Antichrist. Per quanto abbia tutte le caratteristiche dei suddetti titoli, dal continuo confronto tra protagonista e mentore (che qui è nientemeno che Virgilio... sì quello dell'Eneide e de La Divina Commedia) alla struttura in capitoli che qui si chiamano "incidenti", The House That Jack Built riesce fortunatamente a trovare nella narrazione e nella propria estetica una forma idonea per il suo essere contenuto di ossessioni, immagini in sovrimpressione, inserti animati, didascalie vocali e quant'altro.
Dunque la performance di Glenn Gould che suona Bach al pianoforte scandisce la costruzione di una casa di cadaveri da parte di un tale mezzo ingegnere e mezzo architetto, sicuramente killer seriale e artista fotografico. Da bambino era affascinato dai contadini che falciavano l'erba e ha imparato il lavoro della morte a spese di una povera paperella finita sotto le tenaglie; oggi, anni '70, è un uomo maturo vittima di "incidenti", che nel film sono gli omicidi di rispettivamente tre donne, di una famiglia intera (la sua peraltro) e un'esecuzione sommaria al modo dei nazisti in ritirata. Il movente è lo stesso della tigre che sbrana l'agnello in natura... Jack si sente come un individuo che passa da lampione a lampione, assetato di sangue quando l'ombra proveniente dal lampione precedente si fa sempre più grossa e allora deve raggiungere di fretta e furia il successivo. I lampioni sono gli omicidi, la sua comfort zone anche se poi i disturbi ossessivo/compulsivi lo fanno tornare sulla scena del delitto alla ricerca dell'ultima goccia di sangue... e poi a casa, dalla sua amata cella frigorifera e dai modellini di una dimora a più piani che non costruirà mai senza trovare prima il materiale appropriato (che non è un mattone o del legno). Uno così finisce all'Inferno, prima o poi...
Un materiale filmico irregolare che si adatta perfettamente ai modesti scopi del regista. Che in questo caso partorisce suggestioni visive di rimando al Romanticismo pittorico e al Classicismo. Sembra il film di un pervertito che vuole fare il verso allo Jodorowsky degli anni '70. Tutto sommato lo spettacolo regge a dispetto di un finale caratterizzato da effetti in CGI, piuttosto grossolano e ridondante, e per quanto a fine visione si rimanga pur sempre alle domande iniziali.
Sì ok... tutto ha un senso e una sua dimensione, ma comunque non vale mezzo frame di un Henry Pioggia Di Sangue, quello sì un grande film su un serial killer, scandaloso proprio per l'occhio morale del McNaughton d'annata. Annata in cui anche Lars von Trier aveva un grande occhio; oggi il suo merito maggiore è quello di scegliere due strepitosi Matt Dillon e Bruno Ganz. Accontentiamoci.
VP