Ray (2016)
di Andrey Konchalovskiy
Yuliya Vysotskaya (Olga)
Philippe Duquesne (Zhyul)
Viktor Sukhorukov (Genrikh Gimmler)
Jean Denis Römer (Shulman)
Peter Kurth (Krauze)
Ramona Kunze-Libnow (Nachalnitsa kontslagerya)
Christian Clauss (Khelmut)
Irina Demidkina (Okhrannitsa tyurmy)
Una donna russa cerca di salvare dei bambini, il che sarebbe nobile se non fossimo nella Parigi occupata. Finisce in carcere, in balìa di compagne di stanza ladre di saponette e di un commissario francese venduto ai tedeschi (che il figlioletto non ama) atto ad estorcerle informazioni. Verrà deportata nei campi di concentramento, svuotata della femminilità. Femminilità che però riconosce un giovane nazista, mandato dall'élite ad indagare sulla corruzione della burocrazia all'interno dei campi. Lui, di famiglia aristocratica con madre appena mancata e serve di casa liberate, è combattuto tra la carriera, il desiderio di fare di nuovo grande la Germania, l'esaltazione della razza ariana (anche in conflitto con i compatrioti che vedono nella vecchia classe nobiliare uno dei disastri del paese che il Reich sta provando a rilanciare), e gli studi di slavistica (in particolare Letteratura Russa) che ai tempi gli rafforzarono tempra e sensibilità. L'incontro con la prigioniera fa riaffiorare i ricordi di una lontana vacanza in Toscana, dove i due si sono sedotti a vicenda, anche amati. Il forno crematorio è pronto, la fuga pianificata sta fallendo: sarà la Storia a ribaltare completamente i destini ormai quasi segnati.
Dei film sulla Seconda Guerra Mondiale è uno dei più profondi, dei più romantici e più contorti, impegnato a raffigurare le contraddizioni di un secolo, il Novecento, con piglio letterario addentrandosi appieno nella carineria, talvolta anche nell'onestà, del Male. Non c'è retorica, non c'è pietismo, né alcuna avance ai sentimenti dello spettatore. Il piano della regia è quasi equidistante tra i personaggi, che si raccontano a tu per tu con la camera, senza sterili autocompiacimenti stilistici. La narrazione è oggettiva anche quando affonda nel personale (splendida sequenza del giovane SS avvolto nella nebbia), non si concede banalità e procede dritta per dritta verso la dedica finale ai milioni di vittime russe, che passa forse involontariamente in secondo piano.
Konchalovskiy, che negli anni '80 emigrò in America scalando il cinema hollywoodiano (firmò Tango & Cash con Stallone e Kurt Russell) gioca in modo frammentario con i diversi tipi di narrazione del Novecento: la parte ambientata in Toscana ad esempio è un vero film muto. Chi meglio di lui (classe 1937) poteva farlo?
Un film celebrativo russo? Un film ruffiano sull'Olocausto, confezionato appositamente per l'Academy? Assolutamente no. È un film conclusivo di una tradizione autoriale europea, che ha di gran lunga più a che spartire con La Passeggera di Andrzej Munk rispetto ad uno Schilndler's List. E davanti ad un Cinema del genere non si può far altro che togliersi il cappello.
VP