Quel 26 maggio di cui "la verità reale è che v'avemo fatto male" io c'ero; ero partito da casa già ubriaco, con tre bottiglie di Guinness scura sullo stomaco, una maglia d'annata col fascio, un biglietto di Distinti Sud Est, che quando ero bambino si chiamavano semplicemente Distinti Est, e un costume sotto i jeans per un bagno euforico a Fontana Di Trevi con un caro amico che stava in Monte Mario e con cui mi ero dato una punta all'Obelisco in caso di vittoria.
Come ormai tutti sanno, non andò esattamente bene, tra la performance imbarazzante di uno showman coreano che nella follia di questi tempi è riuscito a raggiungere milioni su milioni di click su Youtube con un pezzo simil dance anni '90, talmente banale da ficcarsi nel cervello in loop, e una partita altrettanto imbarazzante della Roma che riuscì a tirare in porta solo con una ciabattata di Destro.
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Il derby di Coppa Italia è stato il quarto derby che la Roma di James Pallotta ha perso in due anni; prima dell'insediamento del gruppo di Boston che creò la D.l.l., l'equivalente americano della S.p.a., per prendere la società, la Roma veniva da un periodo economicamente nero, privo di futuro se non la voragine del fallimento, sessioni di mercato statiche dove mano a mano doveva vendere un pezzo pregiato della squadra, possibilmente il meno doloroso e più facile da digerire per i tifosi, e creare utili per ripianare i buchi clamorosi della controllante Italpetroli, ma che, un po' per inerzia, un po' per Calciopoli, la portava a contendersi il titolo con l'Inter milionaria di Moratti, una sorta di Davide contro Golia del calcio, arrivare ai Quarti Di Finale di Champions League per ben due volte e vincere ben cinque derby consecutivi in due anni, quelli che la Lazio ci sta dando indietro.
Dettagli che economicamente, soldi dell'Europa che conta a parte, contano fino a un certo punto, ma che per i tifosi sono l'unica ragione di essere. Thomas DiBenedetto, James Pallotta, Franco Baldini Direttore Generale e Walter Sabatini Direttore Sportivo, più Claudio Fenucci e Mauro Baldissoni irruppero nello sfacelo della società che Rosella Sensi lasciò, con tanto di debiti e giocatori con ingaggi pesantissimi come ultimi regali prima di andarsene (Marco Borriello), con l'idea utopistica e coraggiosa di cambiare l'ambiente, cambiare completamente la squadra tranne Totti e De Rossi che erano e sono intoccabili, cambiare i tifosi a furia di comportamenti educati e quasi da aplomb inglese, una gestione tecnica fatta di investimenti su giovani e allenatori in grado di dare un'impronta di gioco decisamente brillante.
Un'idea a cui non si può non voler bene, soprattutto se si è tifosi della Roma che vorrebbero vedere la propria squadra avere un'organizzazione societaria degna delle grandi d'Europa, quindi stadio di proprietà da fare al più presto, con buona pace del traffico, della mobilità e degli scavi archeologici che minano la maggior parte delle possibilità di costruire qualcosa, un sito Internet ben lontano dalla vergogna 1.0 che per lustri ha rappresentato la Roma sulla rete, un marchio da riqualificare cercando di espanderlo nei mercati americani e asiatici (che sono "i mercati" per eccellenza), fare in modo di conciliare il nome della squadra a quello della città in modo che ogni turista appena sceso dal volo senta il subito il bisogno di acquistare una maglia originale agli store. Per non parlare di partnership e materiali tecnici da riconsiderare... cose di cui gli americani sono maestri.
Ma per ora il risultato è stato un mediocre via vai di fallimenti sportivi, tra un tecnico fuggito e un rivoluzionario caro alla gente dimesso, un tattico promosso al rango di allenatore realista, lucido e un po' minestraro, e che comunque al di là delle antipatie del popolo ha in parte salvato una stagione con vittorie contro Juventus e Inter in semifinale di Coppa Italia, e infine una nuova scommessa, quella di un tecnico francese pupillo di Sabatini che con l'addio di Baldini al Tottenham ha preso completamente il timone in mano.

I tifosi sono inferociti, colpiti in tutto ciò che gli è a cuore: la rivalità cittadina con le sue lotte di quartiere e di scritte sui muri per rivendicare una presunta territorialità, l'affetto immortale verso i giocatori da sublimare nel positivo, il cambio di un logo rifatto su misura per accordi commerciali ed espansioni all'estero. Poco importa se il derby Roma - Lazio è da sempre una guerra tra poracci. Poco importa se Marquinhos e Lamela saranno pur sempre sostituiti da due giocatori se non più forti almeno diversi e magari più adatti alle esigenze del tecnico Rudi Garcia, ovvero quello che era mancato nei due anni precedenti in cui gli allenatori sacrificavano i naturali ruoli sull'altare del proprio credo tattico. Poco importa se più tifosi la Roma riuscirà a conquistare in Cina o in Indonesia, più i broadcast locali investiranno i propri palinsesti sulle partite della squadra giallorossa traducendo il tutto in soldi per le casse societarie.

Perché al contrario degli americani o dei nordici, i latini, e in particolar modo i romani, non si fidano mai del positivismo mercantile. I romani sono sanguigni, viscerali, provinciali: vengono dai rioni nascosti all'ombra dei palazzi istituzionali del centro per rivendicare tutto il loro bisogno di un attaccamento alla terra. I romani, certi romani, quelli che non hanno voglia di confrontarsi col mercato, quelli che il capitalismo non lo amano e si rifiutano anche di capirlo, hanno bisogno di rivedersi nella schiettezza un po' grossolana di Totti o nella vena incazzata di De Rossi. Vivono di tradizione, di colore, di rapporti con l'esterno quasi da De Bello Gallico. Fanno della retorica, della demagogia, della staticità dei valori, e dei giocatori in rosa, un valore quasi etico. Non amano i cambiamenti repentini, hanno bisogno di certezze, davanti a un mercato di occasioni hanno sempre più paura di perdere che di guadagnare in una forma nuova.

Questa gente, che sotto sotto sperava ad un fallimento della nuova Roma, rappresenta l'esatto contrario di ciò che sono James Pallotta, Walter Sabatini e ancor prima Franco Baldini, ovvero personaggi che vogliono lavorare dall'alto, che hanno fin da subito ristabilito i sei gradi di separazione tra se stessi e gli addetti alla comunicazione.
Gente che vuole cambiare i romani e Roma, una delle capitali più provinciali e decadenti d'Europa. Probabilmente non ci riusciranno e molleranno tra imprecazioni e facepalm stressati come quello di Sabatini al goal di De Rossi a Livorno. Ma non ci sarà mai più una società per cui tiferò incondizionatamente come questa, anche se dovessero vendere il giocatore punta di diamante della squadra. Perché il futuro è la società: la squadra e le vittorie sono solo una conseguenza.
La conseguenza di uno stile.
VP