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lunedì 16 aprile 2012

La Solitudine Dei Numeri Primi (2010) by Saverio Costanzo

Questa recensione è stata richiesta da due ragazze di Cuneo, attente lettrici del mio blog a cui mando un affettuoso abbraccio


La Solitudine Dei Numeri Primi (2010)
di Saverio Costanzo

Alba Rohrwacher (Alice Della Rocca)
Luca Marinelli (Mattia Balossino)
Martina Albano (Alice bambina)
Vittorio Lomartire (teenage Mattia)
Arianna Nastro (young Alice)
Tommaso Neri (young Mattia)
Isabella Rossellini (Adele)
Roberto Sbaratto (Pietro Balossino)


E' sempre difficile capire le coordinate di un film tratto da un grandissimo fenomeno letterario, soprattutto se non letto: primo perché la fedeltà al testo è uno dei parametri fondamentali di una sceneggiatura non originale (ma in questo caso siamo avvantaggiati in quanto due delle quattro mani che hanno scritto il copione sono quelle dell'autore del libro), secondo perché i pensieri dei personaggi descritti su carta non sono mai così chiari al cinema dove le immagini spesso parlano da sole e allo spettatore è concessa la libertà di interpretare le psicologie in assenza di un supporto didascalico come potrebbe essere una voce off. Mai come nel caso de La Solitudine Dei Numeri Primi di Paolo Giordano quest'ultimo particolare poteva diventare un handicap, trattandosi di un testo che giocava a scavare nel turbinio di sentimenti, patologie e insicurezze dei personaggi dalla fanciullezza all'età adulta, passando per l'adolescenza.

In questo caso la scelta del regista di parlare coi silenzi e tradurre i pensieri negli sguardi si rivela la più estrema e la più felice: Saverio Costanzo trasforma una storia di formazione di due giovani amanti misantropi colmi di paure in un horror dell'anima dalla messa in scena tanto eclettica quanto fluida: dagli interni e gli esterni del piemontese la macchina da presa impostata a mezza altezza si muove in piani sequenza stretti e inquietanti. Il senso di claustrofobia cerebrale che il regista volontariamente ostenta porta lo spettatore a avere paura di se stesso e a riflettere sulla natura ciclica degli eventi (che si ripropongono similarmente nel corso dei decenni).

È un mix di stravaganza e orrore che trova in Profondo Rosso (la regia che ondeggia sui particolari, la colonna sonora pop estenuante a fare il tramite tra le ripetute dissolvenze incrociate) e Shining (i corridoi da cui ci si aspetta di trovare da un momento all'altro le gemelline dell'Overlook Hotel e dove i genitori dei due appaiono come fantasmi) due modelli, due studi, che si adattano in modo magistrale al materiale narrativo.
Non tutto è così oliato, soprattutto nel finale stanco e lento, letteralmente divorato da un'Alba Rohrwacher forse troppo sopra le righe. Ma si respira aria nuova e fresca: quella di cui il cinema italiano avrebbe sempre più bisogno.


VP