
A pensarci bene le poche volte che mi ritrovo a passeggiare tra gli affollatissimi corridoi dell'Auditorium rivedo il mio spirito adolescenziale negli occhi e nelle bocche di tutta quella gente che sento parlare di cinema, solitamente di Lynch, Cronenberg, Moretti, Sorrentino e qualche volta di Garrone. E penso sempre a come io sia cambiato, a quanto allora nel '98 fossi felice di far parte di un team di lavoro che non mi pagava ma mi mandava in giro, che mi permetteva di iniziare il conteggio dei pezzi per diventare dopo due anni giornalista pubblicista, che mi dava la possibilità di ritrovarmi accanto a un Enrico Magrelli o un Mauro Gervasini nelle proiezioni riservate alla stampa. Ho ricordi dolcissimi delle mattine in cui facevo sega a scuola perché c'era la proiezione del nuovo blockbuster della UIP nella saletta degli studi della stessa compagnia a via Bissolati che ora non c'è più. Così come amavo andare a via degli Scipioni alla redazione della mia rivista per dire ai miei collaboratori che il film non era granché.
E capisco, voltandomi indietro, quanto più la mia cultura cinematografica si arricchiva di nozioni storiche e visioni d'autore (la Hollywood classica, le avanguardie, il cinema sovietico, quello iraniano) più la voglia di parlare e scrivere di cinema andava ad affievolirsi nel senso più mondano del termine. Tanta, troppa gente parla di cinema spesso senza saperne: non è possibile che tanti redattori, che tuttora ricoprono ruoli di tutto rispetto in riviste anche prestigiose, reputino Drive e più in generale il cinema di Winding Refn rivoluzionario. A ogni discussione privata tra me e uno di questi brillanti descrittori dell'emozione filmica sorgono dubbi su dubbi che, grazie ad alcuni stratagemmi dialettici, riesco a tramutare in certezze: ma l'hanno mai visti i noir degli anni '40, i film di Jacques Tourneur, capolavori come Le Catene Della Colpa? No, perché si dà il caso che Drive è il noir californiano nella sua forma più classica, esattamente l'essenza del non rivoluzionario, un po' mascherata dall'abilità del regista danese di creare piani sequenza d'effetto come quello dell'ascensore.

Capii che quando la connessione a internet sarebbe stata velocissima e alla portata di tutti allora qualsiasi persona sarebbe stata in grado di scrivere recensioni e che la critica avrebbe perso una sua autenticità per sottomettersi alla logica della democratizzazione culturale che il web avrebbe portato. Oggi che la storia dell'informatica si è sviluppata in tutto il suo splendore possiamo leggere su siti di riviste amatissime e prestigiose gli angoli delle recensioni dei lettori, che spesso sono più lette anche di quelle ufficiali dei redattori della rivista.
Internet ha di fatto reso possibile l'appropriazione di qualsiasi tipo di materiale, si è sostituito ai festival per la distribuzione e la possibilità di usufruire di cinematografie lontane che spesse volte non venivano distribuite nei theatrical (eliminando dunque il vero senso di un festival) e soprattutto ha dato opportunità a qualsiasi persona di farsi una cultura propria e di conseguenza la possibilità di parlare e giudicare i film.
E qui si entra nel cuore del problema, si entra nel dibattito sul senso della critica, su ciò che un critico è o che dovrebbe essere, sul ruolo sociale del critico che le mille opportunità di Internet hanno brutalizzato. Fino all'avvento del web per diventare critici si doveva studiare, si dovevano comprare riviste, si dovevano noleggiare vhs, si dovevano comprare saggi, bisognava in parole povere finanziare la propria competenza per avere più nozioni degli altri e, di conseguenza, arricchire i propri articoli della consapevolezza del cinema, della sua storia, dei film che hanno creato e sviluppato i generi dal muto ai giorni nostri.

Soprattutto si diventava critici quando si entrava nelle redazioni dei giornali, si diventava giornalisti con un iter ben preciso, una via crucis da intraprendere prima di conquistare l'agognato posto. Ma soprattutto un critico era tale quando nei suoi articoli, nei suoi sproloqui, nelle sue interviste a registi e attori, dimostrava di possedere l'arte di mettere in parole, spiegare le immagini arricchendo il bagaglio culturale di un vero e proprio genere letterario.
Un critico bravo deve valutare un film nel suo rapporto con la storia filmica e non solo dell'autore che lo ha diretto, talvolta lo deve saper collocare nella storia di un genere cinematografico e quel genere lo deve conoscere bene, lo deve aver amato, lo deve portare nel cuore. Un critico bravo vede tutti i film e ama tutti i generi e discerne il bene dal male attraverso un'etica estetica in cui la storia e lo sguardo danzano coccolate dal ricordo delle immagini.
E soprattutto un bravo critico non usa i film per valorizzare socialmente se stesso, per mostrare la propria abilità nel parlare di un argomento molte volte glamour e accattivante come può essere il cinema, una disciplina che può arricchire facilmente la propria personalità negli occhi altrui. Il bravo critico ama le immagini e ama i film molto prima di amare se stesso, ha l'obbligo morale di parlare di un piacevole ultimo episodio di Batman o di un seducente viaggio nei territori di Lynch quanto delle sette ore e mezzo immerse nella pianura ungherese di Sátántangó di Béla Tarr: amare quei film che sono la negazione dello spettacolo e la visione di un cinema che va al di là di se stesso.
Ma per avere una dignità il critico cinematografico deve vivere, deve esistere e deve essere riconosciuto socialmente. La critica deve essere una professione, un'abilità intellettuale che deve servire al pubblico non a dire cosa è bello o brutto, ma ad aiutare a interpretare un prodotto, tradurre le intenzioni del regista e le suggestioni delle immagini in parole. E questa è una competenza, una predisposizione che nessuno di coloro che scrivono le recensioni dei lettori sul portale online di Film Tv può mai avere.
Sono cose che bisogna sentire, che nascono da un rapporto intimo ed esclusivo con la materia trattata. In questo senso la mia passione per il cinema non nasce da un desiderio sociale, dalla voglia di arricchire la mia persona nel contesto sociale a cui appartengo. È qualcosa che nasce dalla solitudine, spesse volte dalla malattia, dalla mancanza di contatti umani che mi ha fatto diventare un inguaribile amante delle cose.
E questo va direttamente in controtendenza con ciò che Internet negli anni è diventato: uno strumento che ha reso l'uomo sempre più animale sociale, rinchiuso con gli occhi fissi sullo schermo di un laptop ma allo stesso tempo attivo sui social network che gli permettono di avere una sorta di ubiquità nelle relazioni con più persone. Il critico del web ha perso l'autorevolezza che i decenni passati avevano dato lustro a Ghezzi, a Mereghetti, a Tullio Kezich e diventa preda di un mondo al ribasso, di un mondo in cui l'attenzione della gente diminuisce a fronte di tanti interessi e stimoli culturali che si moltiplicano a dismisura tanto da risultare ingestibili e impossibili da seguire con la stessa intensità.

Ovvio che se il gioco è questo una rivista come quella in cui lavoravo perde ciò che ho sempre ritenuto un punto fermo della critica cinematografica, ciò per cui ho amato e amo tuttora questa disciplina: la coerenza. Era il 2001 quando fui mandato alla prima di un film di Carlo Verdone che stroncai senza pietà l'indomani: la mia recensione fu pubblicata regolarmente dai miei collaboratori salvo poi essere rimpiazzata tre settimane dopo con un'altra assai mediocre che parlava bene del film. Qualche giorno ancora più tardi la mia rivista pubblicò un'intervista esclusiva allo stesso Verdone che prese più visualizzazioni di tutte le mie recensioni messe insieme.
Dunque è ovvio che se il metro di valutazione del successo di un articolo è la visualizzazione dello stesso una rivista, soprattutto medio piccola come quella in cui collaboravo, avrà l'interesse di ingraziarsi un personaggio nazionalpopolare con articoli positivi da barattare con interviste esclusive. Allora, a 18 anni, mi sentii tradito, deluso, fu l'inizio della mia rottura con le redazioni, la fine del mio conteggio per diventare pubblicista. Ieri, come oggi, non ne voglio più sapere.
Anche perché i giornali non assumono più e di tutto hanno bisogno tranne che di critici cinematografici, a quella roba ci pensa già il popolo e la sua coscienza, l'unica a generare utili. Me lo spiegò bene il caporedattore di un quotidiano tendente a destra (in politica) che a Torino venne a parlare proprio ad un master di critica cinematografica che io frequentai nell'estate del 2012. Ci raccontò di come fosse subissato di richieste di lavoro da aspiranti critici di cinema, persone che gli facevano tenerezza anche un po' pena, email da cestinare inesorabilmente. Ci portò però un esempio di speranza, un'indicazione di ciò che poteva e che potrebbe essere la critica nel futuro: l'esempio del youtuber Yotobi, un giovane ragazzo che parla di film e che è diventato una vera e propria star del web grazie ai simpaticissimi sketch che dissemina nelle sue recensioni.

La critica non è questo, perché la verità dei fatti è che non c'è niente di democratico in essa. La critica cinematografica è una passione elitaria, ha bisogno di metodo e riflessione, di essere trattata come un monarca davanti un popolo di spettatori.
E forse Internet, che tutti noi all'inizio pensavamo terreno di opportunità, ne è il più grande nemico, quello che ucciderà ciò che per noi è più sacro.
VP