Holy Motors (2012)
di Leos Carax
Denis Lavant (M. Oscar)
Edith Scob (Céline)
Eva Mendes (Kay M)
Kylie Minogue (Eva Grace)
Elise Lhomeau (Léa)
Jeanne Disson (Angéle)
Michel Piccoli (l'Homme à la tache du vin)
Leos Carax (le dormeur / voix limousine)
Oggi i registi di culto dei decenni passati sembrano voler analizzare con cinismo e disincanto la fine di un qualcosa, con paure per il presente e sinistre premonizioni future che infine non possono che portare alla magnificazione del passato. E lo fanno con i giri di una limousine per le strade della città come base per addentrarsi nel marcio e nella disperazione di superfici underground fisiche e spirituali. Ad esempio Cronenberg e De Lillo in Cosmopolis parlavano del potere corrotto, inafferrabile, immateriale, avido di trivellare sempre più a fondo la condizione dei deboli; sulla loro limousine c'era uno speculatore finanziario che attraversava New York per un gesto materiale e umano come un taglio dal barbiere.
Invece quell'animale da festival di Leos Carax, talento visivo che gioca a fare il maledetto, perennemente schiavo della sua smania di artista folle riconosciuto da tutti, nella sua limousine che gira le strade parigine ci mette un uomo che per una decina di volte cambia connotati e passato: da broker finanziario a mendicante gobba, da acrobata futurista dedito al cyber(sex) ad assassino, da vecchio morente con nipote al capezzale a padre di una ragazzina timida e bugiarda (interpretata dalla figlia del regista stesso), da mostro del cimitero in grado di rubare la bellezza di Eva Mendes e trascinarla nelle fogne ad amante perduto ne La Samaritaine e così via.
Dove vuole parare l'autore è molto chiaro ed è egli stesso a spiegarlo didascalicamente, quasi con premura, attraverso l'incontro nella limousine tra il protagonista e il committente di quelli che lui chiama "incontri", un Michel Piccoli in cerca di delucidazioni sul senso di tutto questo e sulle motivazioni che spingono Oscar a uccidere e farsi uccidere a sua volta, cambiare storie e scenari.
È l'amore per l'azione, per il gesto, per le emozioni impresse su celluloide. Sull'esperienza empirica e totale che è stato il Cinema prima dell'avvento della frammentarietà di internet, dei social network, del digitale, della fruizione deconcentrata e spezzettata di materiale audiovisivo grazie a Youtube et similia. Supporti che hanno pulito e catalogato la bellezza perfetta di immagini imperfette; quelle in bianco e nero e mute degli albori che ogni tanto Carax ci propone, quelle che, come il protagonista nostalgicamente afferma, erano catturate con motori sacri, macchine da presa più grandi e pesanti del corpo umano. La poesia che nasceva dalla mente di un artista tormentato che si alzava dal letto e si trovava, nelle sue mani di artista, la chiave per aprire ogni muro e catapultarsi in una sala cinematografica (la scena iniziale del film).
Solo che "la bellezza è nell'occhio di chi vede" e quelli degli spettatori in sala sono ben chiusi, assorti nella loro ignoranza delle forme piene di espressione. Un'immagine forte, che rimane, che stimola riflessioni a cui il regista di Les Amants Du Point-Neuf non ci aveva abituato.
Metacinema portato alle estreme conseguenze con il piede ben poggiato sull'acceleratore, un gioco a scatole cinesi in cui il ruolo di questi angeli da Cielo Sopra Parigi, tra cui anche un'inedita Kylie Minogue, è fin troppo ben spiegato. Come Cosmopolis questo tipo di film così a stretto contatto con la videoarte (anche concettuale) non può che presentare due difetti: la dispersività dei contenuti e delle suggestioni e la mancanza di una narrazione compatta, che però rispetto al film di Cronenberg regge di gran lunga meglio.
Al Festival di Cannes 2012, dove il film era in concorso, più di qualcuno ha gridato al capolavoro per questo De Profundis della Settima Arte. Traslato alla nostra epoca, ha lo stesso valore dei deliri con cui Alejandro Jodorowski bombardava gli anni '70. Deliri che oggi fanno tenerezza.
VP